di Monica Gianotti
Approfittando della sua presenza a Milano – in occasione di un simposio con gli studenti dei corsi di Grafica e di Design della Comunicazione dell’Istituto Europeo di Design – abbiamo intervistato Bill Gardner, designer americano fondatore di LogoLounge.com e tra i massimi esperti di branding e visual identity. Con lui abbiamo parlato di tendenze emergenti, di nuove tecnologie – intelligenza artificiale in primis – e di evoluzione del ruolo del brand in un mondo in continuo cambiamento.
Quanto è ancora importante, oggi, il logo di un brand? Quali sono gli elementi fondamentali che fanno di un ‘disegno’ un logo?
Parto con un’affermazione comune: un logo, ovviamente, non è un brand. Un logo può essere la pietra miliare che, si spera, avrà una certa longevità all’interno di una marca. Ma il brand è tutto ciò che suscita una sorta di sentimento nei confronti di un prodotto, di un oggetto o di un individuo. Guardando al solo visual (in una società fortemente visiva), il logo è fondamentale. A rendere un disegno un logo è il vocabolario visivo, ossia la tipografia utilizzata, i colori, le texture, la gerarchia dei caratteri e il come, il dove e il quando vengono utilizzati, i modelli e i materiali con cui si lavora: può trattarsi di animazioni, di gradienti, di stile illustrativo o di stile fotografico.
Chiarisco con un esempio che parla di DNA del brand (espressione che generalmente non mi piace): probabilmente conoscete una coppia i cui figli sono identici ai genitori. Giusto? Se questa coppia, che non è bionda, all’improvviso ha un figlio biondo, allora sembra essere entrato nel sistema del DNA che non era tipico di quel gruppo. Un brand è molto simile.
Nel creare un logo c’è la creatività, ma esistono anche dei paletti, non ci si può affidare alla sorpresa. Ciò significa che se qualcuno decide di inserire un carattere che non appartiene alla famiglia del brand, questo inizia a disturbare la sua coerenza. Magari poi nel corso del tempo, qualcuno introduce un altro colore o un’altra texture, e presto ci si accorge che il brand non è più così chiaro, che inizia a essere integrato con idee che non sono in linea con il messaggio originale.
Come si stanno trasformando il design e la visual identity in un mondo che si sta progressivamente liberando da tutto ciò che è ‘convenzionale’?
È il dispositivo di fruizione, il delivery device, a influenzare più di tutto il design in questo momento. Immaginiamo la differenza di percezione dei colori da parte di un bambino di oggi rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto: queste si sono affidate alla stampa CMYK per percepirli, che prevedeva che le luci ambientali colpissero il supporto fisico dell’immagine e si riflettessero fino a rimbalzare verso l’occhio, per ricevere il messaggio veicolato visivamente. Oggi stiamo trasmettendo le informazioni visive direttamente attraverso la luce del dispositivo, lo smartphone: è il nostro dispositivo che proietta la luce e l’informazione.
Cosa ne pensa dei video-loghi? E del sound logo?
Li amo. Più sensi riusciamo a coinvolgere, più qualcosa è memorabile. Questo vale per qualsiasi cosa: quando si guarda un film, il suono e l’udito si integrano al movimento e allo sguardo. Se sei al cinema, si può integrare anche il tatto o qualsiasi altra cosa. Quindi si può ben immaginare come, con una identità di brand o un logo, potremo catturare maggiormente l’attenzione del pubblico non appena inizieremo a introdurre il suono o il movimento. E tornando alla risposta precedente, il fatto che si viva nell’era digitale significa che non è una sfida introdurre suono o movimento. La domanda da porsi è questa: se ora stiamo usando 3 sensi – vista, udito e tatto – tra 10 anni avremo un dispositivo in grado di supportare un quarto o un quinto senso? O semplicemente li ignoreremo?
Quali sono le tendenze chiave che trasformeranno il branding (e il visual) nei prossimi anni?
In parte ho già risposto sopra, parlando dei sensi. Un brand è in realtà solo un tentativo di trasmettere a qualcuno l’essenza di qualcosa: potrei fare questo anche solo con una conversazione o mostrando un’immagine che suscita in voi un ricordo. Un brand si basa su ricordi già costruiti: per risultare emozionale, offrirà qualcosa che scatena in voi un ricordo molto emozionante. Il punto sta nella soggettività: forse il ruolo del brand deve essere quello di non inviare a tutti lo stesso messaggio. Forse in futuro sarà sempre più in grado di adattare il suo messaggio al singolo individuo.
Grazie all’intelligenza artificiale potremmo già guardare un individuo attraverso lo schermo e leggere le sue emozioni, non è forse vero? Vedere se è felice o inacidito o triste e così via, e parlargli in modo diverso a seconda dello stato d’animo. C’è un motivo per cui un brand non potrebbe potenzialmente leggere l’umore di una persona e parlarle con il tono che in quel momento lo rende più ricettivo?
In questo scenario che ruolo giocheranno l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie? Nella definizione operativa o nel concept creativo?
Penso che l’AI sarà uno strumento incredibilmente utile per noi. Al momento è in una curva di apprendimento enorme. Nonostante sembri fornire le sue risposte in modo molto empirico, l’AI deve ancora capire come inserire un certo grado di serendipità in una risposta. Deve ancora capire come pensare in modo tale da mettere insieme pensieri che non seguono un percorso lineare.
Quando rispondiamo a una domanda, potremmo pensare a varie altre cose che stanno accadendo nella nostra vita in un dato momento e integrarle nella risposta (magari, ad esempio, un progetto sepolto nella mente che riaffiora perché perfettamente adattabile alla risposta in questione). Il computer non può farlo. L’AI non saprà fare queste cose in modo intuitivo. In un certo senso, è come un bambino. Può fornire risposte inaspettate.
Vi faccio un rapido esempio. Stavamo progettando una mostra giapponese che aveva al suo interno una pagoda. Abbiamo chiesto all’intelligenza artificiale di eseguire un paio di rendering. E uno dei rendering è uscito con dei fiori che pendevano dal soffitto interno della pagoda. L’AI non sapeva che le pagode non hanno fiori appesi. Ma il fatto che ci fossero ed erano bellissimi finì per influenzarci. L’AI si è comportata come un bambino: ma quando imparerà che non si mettono fiori sul soffitto del tempio, smetterà di dare quella risposta. Mi mancherà questa infantilità. E quando l’AI crescerà, sarà più simile a voi e a me. Le risposte saranno molto più prevedibili e questo è un peccato.
Come vede il futuro del Graphic Designer? Sarà necessario trovare un nuovo nome per questo ‘mestiere’?
Direi che è importante scegliere e usare quelle parole che ci fanno sentire meglio. Una volta i graphic designer venivano chiamati artisti commerciali. E poi la cosa è passata in secondo piano. Francamente, credo che graphic designer funzioni in modo scadente nel definire ciò che già facciamo.
Quindi immagino che qualcuno in futuro troverà un job title migliore. Siamo un gruppo di anime perse. Non sappiamo davvero cosa stia succedendo nel mondo perché le nostre condizioni cambiano continuamente così come i dispositivi di fruizione del contenuto. Ma ci si aspetta che continuiamo a fare lo stesso lavoro, che è fondamentalmente prendere un messaggio e conferirgli qualcosa di visivo, che susciti un’emozione. Quindi il nostro lavoro dovremmo chiamarlo ‘drawing emotion’ invece che ‘graphic design’.
Se dovesse indicare il logo più bello che sia mai stato realizzato, quale sceglierebbe? E perché?
I loghi che dovrei indicare non li ha mai visti quasi nessuno. Faccio qualche esempio più noto. Penso che il logo di BP (British Petroleum), disegnato alcuni anni fa da Margaret Youngblood, all’epoca in cui lo sviluppò, infrangesse molte regole e risultasse molto fresco. Per continuare, Michael Vanderweil (uno dei miei designer americani preferiti) ha sviluppato un logo per un luogo chiamato 2 Woods Resort, che rappresentava queste meravigliose anatre domestiche che nuotavano tra code di gatto, sull’acqua. È stato uno dei loghi che più mi ha ispirato a diventare un designer, solo guardandolo.
E infine, un’ultima domanda: di cosa parlerà il suo prossimo libro? Ci può dare qualche anticipazione?
L’essenza del libro – che ancora non ha un titolo – è proprio quella di cercare di focalizzare l’attenzione su ciò che rende un logo incredibilmente memorabile e di analizzare le varie tendenze, i percorsi o le metodologie che sono state utilizzate, parlando delle storie che accompagnano un’identità e che la rendono altamente memorabile. Si tratterà anche, soprattutto, di analizzare le tendenze del design. Perché non appena si acquista un libro su uno scaffale, questo è un pezzo di storia.
Un libro può raccontare cosa è successo, non il futuro. Speriamo di poter almeno tentare di parlare del futuro, di cosa sta facendo tendenza e immaginare dove come ci si muoverà nel prossimo futuro. Il libro affronta l’ambiente nel quale ci muoviamo per trasmettere i messaggi. Si spera che possa durare qualche anno e che incoraggi gli studenti o i designer.