di Maurizio Ermisino
È forse il lavoro più ingrato del mondo quello del celerino, cioè il poliziotto che si occupa di pubblica sicurezza. Dopo il film di Stefano Sollima del 2012, quel lavoro ce lo racconta ora ACAB, la serie in 6 episodi prodotta da Cattleya disponibile su Netflix dal 15 gennaio. Tratta dal libro ACAB di Carlo Bonini (Feltrinelli), è ideata da Carlo Bonini e Filippo Gravino e scritta da Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, con lo story editing di Filippo Gravino. Quello del celerino è il lavoro più ingrato del mondo: un lavoro da “cattivi”, un lavoro che incattivisce. Un lavoro che serve a fermare la violenza e che a volte porta inevitabilmente ad altra violenza. Inevitabilmente? In questo avverbio c’è tutto il nocciolo della questione, delle polemiche, di un nuovo modo di fare ordine pubblico che finisce per scontrarsi con un vecchio modo di intendere il reparto celere. Tutto questo è raccontato da ACAB che è stata presentata ieri a Roma, al cinema Barberini.
Con ACAB Netflix va sul sicuro
Riporta in serialità la letteratura di Bonini dopo Suburra (scritto insieme e De Cataldo), film di successo, e sempre con la produzione di Cattleya. Quello di Bonini è un racconto che parte da una ricerca sociale ma che, al cinema e in tv, si riverbera naturalmente nel genere. Il crime, il poliziesco, però, in ACAB serve a raccontarci qualcosa di più: la nostra società, l’attualità. “La filiera romanzo-film-serie ci appartiene molto come metodologia” ha spiegato Riccardo Tozzi, Fondatore e A.D. di Cattleya. “ACAB era un terreno fertile secondo noi. Parla di un tema importante, che è la società civile che trasferisce allo Stato il monopolio della violenza. E racconta personaggi comuni. La pratica della violenza crea un crinale, che è quello che serve per fare il romanzo e la serie, che è il romanzo contemporaneo. I personaggi sono posti in una condizione epica. Ci siamo rimessi vicino a Stefano Sollima (qui produttore esecutivo, ndr), prima per nostalgia e poi come garante dell’approccio, non retorico e senza ideologia”.
La partnership tra Netflix e Cattleya
“Quando Cattleya ci ha portato l’idea dell’adattamento di ACAB lo abbiamo sentito come un progetto necessario e urgente” spiega Tinni Andreatta, Vice Presidente per i contenuti italiani di Netflix. “Affronta un tema universale e attuale, come la dialettica tra l’ordine e il caos, che ha accompagnato lo sviluppo della società da sempre e parla dei nostri tempi. Utilizza gli stilemi di un genere, il racconto action e crime, ma va al di là per affondare lo sguardo nel sistema complesso fatto di violenza, rabbia repressa e disillusione che ha a che fare con i poliziotti e la società che li circonda. Cattleya è nostro partner da sempre, perfetto per lavorare su un’arena più ampia di personaggi. Ilaria Castiglioni ha curato il progetto sin dalla scrittura, che ha uno sguardo moderno. Mette al centro i personaggi: il lavoro, ma anche la vita privata. È un progetto corrispondente alla strategia editoriale di Netflix: storie coraggiose che rompano gli stereotipi, paure e timori e intrattengano il pubblico senza dare risposte, ma ponendo delle domande in chi guarda”.
ACAB è una serie differente
Rispetto ad altre storie crime e poliziesche recenti, ACAB è però la serie meno stilizzata e più vicina alla realtà. E potenzialmente quella più scivolosa: basta un attimo e si rischia di essere attaccati da una parte o dall’altra. “L’idea forte è quella di capovolgere il punto di vista” spiega Carlo Bonini, autore del libro e della serie. “Il racconto della realtà diventa formidabile se si capovolge il punto di vista. E abbiamo voluto dare la possibilità di mettersi dietro la visiera di un casco da ordine pubblico e consegnare a chi guarda un racconto che sollecita ognuno di noi a uscire dalla nostra zona di comfort. Ognuno di noi ha un giudizio, una sua convinzione. Noi volevamo metterli in discussione mostrando la complessità e la contraddittorietà di quello che andiamo a raccontare. Nel 2008, quando scrissi il libro, la polizia italiana era ancora quella della ferita aperta di Genova. Riprendere quella polizia 13 anni dopo, con le donne nei reparti mobili, con le bodycam, è stato interessante”.
Qui si entra nella vita delle persone
Quello che, rispetto al film, esce più chiaramente dalla serie ACAB è il dualismo tra la vita privata e quella professionale di chi lavora in questo ambito della polizia, una vera e propria “scissione” tra il proprio io in famiglia e quello sul lavoro. “Per me è stata fondamentale la possibilità di costruire due sfere, una privata e una pubblica” spiega il regista Michele Alhaique. “L’alternanza lineare scene pubbliche private non bastava. Sono partito dalla fine, dalla musica. Ho chiesto ai Mokadelic di produrre dei suoni che fossero una specie di algoritmo ipnotico che non esplodesse mai in un tema. Li avevo in cuffia, mi hanno aiutato a una messa in scena che non fosse naturalistica. È come se volessi seguire una forma intima e privata di azione dei personaggi, come se i conflitti privati dei personaggi avessero un riflesso nella parte pubblica”.
ACAB, nella sua declinazione seriale, vive su tre linee narrative
C’è la trama gialla per il ferimento di un ragazzo in alcuni scontri in Val di Susa, la rivalità tra i due leader, il Mazinga di Marco Giallini e il Nobili di Adriano Giannini, e le vite private dei vari poliziotti. A spiccare sono soprattutto le vicende di tre personaggi, e di tre grandi attori. Mazinga (Marco Giallini) è il trait d’union con il film del 2012. È il poliziotto “vecchia scuola”, duro, quello che ne ha vissute tante. I segni sul suo volto raccontano una storia. Il sopracciglio è alzato, come quello di un personaggio disegnato per essere un duro.
Nobili è il personaggio più controverso
In arrivo dalla sezione di Senigallia, è un poliziotto del nuovo corso, più attento a non offendere, a non caricare, a non prestare il fianco a indagini. Per questo dalla vecchia scuola non è amato. “È un personaggio che incarna il conflitto” spiega Adriano Giannini, che lo interpreta. “Inizialmente per un pensiero diverso rispetto alla gestione dell’odine, più democratico, più progressista. Un altro conflitto lo porta a Roma, dove la piazza è diversa rispetto a come lui intende il suo lavoro. Nel corso della serie lui mette in discussione tutto il suo pensiero, e questo è il suo conflitto più grande”.
E poi c’è la ragazza del gruppo
È Marta Sarri, interpretata da Valentina Bellè. Una donna che fa parte della celere, perché oggi è possibile. È il personaggio più interessante, perché porta le sue fragilità di donna e di madre in un mondo dove per la fragilità sembra non esserci posto. Valentina Bellè continua nel suo percorso di crescita che da Romulus a The Good Mothers l’ha portata fino a qui, dove, come il suo personaggio, ha mortificato la sua femminilità e la sua bellezza per trovare una grande forza espressiva. “Il lavoro che ho fatto è stato eliminare la mia parte femminile il più possibile, ho lavorato sull’assenza di femminilità” spiega l’attrice. “Tutti i personaggi sono pieni di conflitti. Marta arriva da una relazione tossica, e abbiamo immaginato che la soluzione che ha pensato fosse la migliore fosse quella di avvicinarsi al maschile. E il maschile che raccontiamo è testosteronico, violento. È un’ipotesi che lei crede possa aiutarla in questa situazione”.
ACAB è una storia sempre tremendamente attuale
È impossibile infatti non pensare ai recenti casi di cronaca che riguardano la polizia. Bonini, ancora una volta, invita a trovare una misura, a non essere la tifoseria di una o dell’altra parte. “Qualunque poliziotto quotidianamente si trova di fronte al confine che separa l’uso legittimo e l’uso illegittimo delle forze” riflette. “Sono decisioni che vengono prese in 30 secondi, in una condizione di stress psicofisico altissimo. Io penso che proprio perché lo Stato ha il monopolio della forza, deve essere rigoroso nel perseguire e punire dove quell’utilizzo di quel monopolio è illegittimo. Quando questo non avviene abbiamo un problema”. A chiudere, con saggezza, è Marco Giallini: “Alla fine è sempre una guerra tra poveri, anche a livello mondiale” riflette. “Non ho fatto mai in tempo a fare una lotta politica: nel Sessantotto e negli anni Settanta ero piccolo. Mi ricordo benissimo delle persone, con chiavi inglesi, che poi ho rivisto in televisione. O morti, o intervistati… Mi è sempre sembrato che le morti, quelle della politica in quegli anni, fossero un po’ tutte inutili. Per cambiare cosa e per fare cosa? Per la maggioranza erano ragazzi che si massacravano: in nome di che?”.