di Massimo Bolchi
Le Big Tech stanno impugnano l’ascia e ‘disboscano’ senza pietà le proprie file. E non è più una semplice risposta alla crisi che ha investito gli operatori dello streaming video, ma si allarga all’intero comparto tecnologico.
Guardando infatti al settore dello streaming appare chiaro che si tratti di una crisi strutturale, legata all’incremento abnorme dell’offerta avvenuta sull’onda della pandemia e che gli operatori hanno dapprima cercato di mitigare con abbonamenti advertising-based, ma che alle fine porterà a cambiamenti di proprietà e a fusioni per cercare di reggere il backlash portato da una mercato sempre più affollato ma sempre meno disposto a pagare per ‘incapacità’ degli utenti colpiti, nei paesi occidentali, da inflazione, aumento generalizzati dei prezzi dei consumi primari e dei tassi di interesse, e – bisogna dirlo – anche da una certa disaffezione a questa forma di intrattenimento. Non c’è una analogo segno di flessione nei video giochi ad esempio, ma abbonarsi a Netflix, Apple TV, Prime Video, Disney+, Hulu (o Max), Paramount, WBE e alla pletora di altri servizi offerti è oltre le possibilità economiche del cittadino comune.
Ovviamente, quando si parla di televisione in streaming, di OTT e di rilevazioni televisive, l’occhio non può che soffermarsi sugli Stati Uniti, dove il passaggio dalla cable tv ai servizi in streaming, ancora a metà – i dati dell’ultima indagine annuale di Leichtman Research Group (LRG) indicano che solo il 64% delle famiglie televisive negli Stati Uniti è abbonato a un qualche tipo di servizio di pay-TV: si tratta di un calo significativo rispetto al 78% di soli 5 anni fa, ed è diminuito di quasi un quarto rispetto al picco dell’88% del 2010 – è già soggetto a un terremoto prossimo venturo, con il consolidarsi delle offerte, alla ricerca di quella redditività che solo in rari casi si è manifestata.
Ma l’intelligenza artificiale, allora? Per il momento, chiuso il lunghissimo sciopero americano degli autori e degli attori, sta nel suo angolo, minacciosa ma guardata a vista. Più incisiva a carico di altre professioni intellettuali, una su tutte il creativo pubblicitario, dove dall’iniziale impiego per velocizzare i processi è già arrivata alla ‘creazione’ di campagne.
Invece l’onda dell’AI sta impattando sul mondo della Big Tech, in teoria le aziende più pronte ad accettare i cambiamenti. E si sono rivelate talmente pronte che hanno anticipato le loro mosse prima ancora che l’intelligenza artificiale abbiano avuto modo di esplicare compiutamente i suoi effetti: con un taglio dei dipendenti che coinvolge tutte le società attive nella tecnologia di punta. A cominciare dalle più grandi e famose. Per esempio Alphabet, che secondo Reuters licenzierà centinaia di dipendenti nella controllata Voice Assistant di Google, mentre altri centinaia di ruoli verranno eliminati nel team hardware responsabile di Pixel, Nest e Fitbit. Ma non basta: sono in uscita anche la maggior parte delle persone che operano nella realtà aumentata, un altro settore dove i progressi, che pure ci sono stati, non sembrano essere stati allineati con le attese, molto alte, degli utenti. E in più decine di migliaia di altre posizioni spariscono progressivamente
L’Alphabet Workers Union ha reagito a questa decisione, sostenendo in un post su X, che ‘l’azienda non può continuare a licenziare collaboratori mentre guadagna miliardi ogni trimestre’, al che Alphabet ha replicato affermando in un comunicato che sta tentando di ‘investire responsabilmente nelle maggiori priorità della nostra azienda e nelle significative opportunità che ci attendono’. Tradotto dal ‘legalese’ significa dare spazio a Gemini (la GenAI di Google) e al suo chatbot Bard per dar loro modo di sviluppare tutte le future potenzialità, che per il momento però si traducono in tagli di personale,
Anche Microsoft, l’azienda meglio posizionata per gestire l’AI, grazie al suo gigantesco investimento di 13 miliardi di dollari in OpenAI e in ChatGPT, prosegue con l’annunciato, ormai da un anno, ridimensionamento di 10.000 dipendenti ‘superflui’, nonostante il successo dell’integrazione di Copilot in praticamente tutti i suoi applicativi. Il taglio non si limita alla capogruppo: anche LinkedIn ha dato efficacia a parecchie centinaia di licenziamenti tra i lavoratori, anche in questo caso ‘sostituiti’ dall’AI nei loro ruoli di editor e di moderatori.
Amazon infine, con oltre il 30% del mercato statunitense del cloud, ha un moltissimi potenziali clienti per il suo ‘Q’ e le altre offerte di intelligenza artificiale: l’approccio più lento potrebbe piacere ai clienti del cloud computing, soprattutto a quelli che diffidano dei difetti dei chatbot in stile ChatGPT, per il modo in cui ‘allucinano’ le informazioni e per il fatto che possono catturare o diffondere informazioni private. Ma ai fini dei dipendenti del gigante dell’eCommerce, la cose cambiano poco rispetto ai due concorrenti: i 18.000 licenziamenti promessi all’inizio dell’anno scorso stanno diventando realtà e si allargano alle controllate come Prime Video e Twitch, il cui CEO ha affermato che, nonostante i tagli effettuati, la piattaforma è ancora significativamente più grande di quanto dovrebbe, date le dimensioni del giro d’affari.
Nel caso di Amazon, poi, i dipendenti sono aggrediti sui due fronti: i colletti bianchi dall’AI che li sostituisce, e i colletti blu dai robot che continuano a innervare a ritmo crescente i magazzini automatici, anche in questo caso resi sempre più efficienti dall’impiego dell’AI che guadagna spazio ogni giorno di più.
Nonostante le rassicurazioni di molti economisti che assimilano l’AI agli altri grandi progressi tecnologici, dall’energia elettrica, all’automobile, è sempre più diffusa l’impressione, empirica fin che si vuole ma reale a guardare i suoi effetti, che quella aperta dall’AI sia ‘LA RIVOLUZIONE DEFINITIVA’, quella che nel giro di una generazioni darà definitiva forma alla spaccatura della società in due gruppi: quelli che possiedono gli strumenti necessari (numericamente decrescenti) e gli altri, che non hanno più possibilità di lavorare perchè resi inutili dall’AI.
Urge trovare un rimedio concreto, al di là dei pannicelli caldi quali l’EU AI Act.