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Nereo Sciutto, Webranking: “I connected media portano con sé il dato: una vera rivoluzione che non è stata ancora assorbita pienamente”

Nereo Sciutto, Ceo e co-founder Webranking,
Nereo Sciutto, Ceo e co-founder Webranking
di Massimo Bolchi

Oggi si tiene, al Magna Pars di Milano, l’atteso appuntamento ‘Connected Media Summit‘ organizzato da Webranking insieme a UPA, The Trade Desk, Disney Advertising, Spotify Advertising e Teads Italia per dibattere questa tematica di estrema attualità e dalla grandi potenzialità pubblicitarie.  Ne parliamo qui con Nereo Sciutto, Ceo e co-founder di WEBRANKING, affrontando alcuni degli argomenti più significativi, dal DOOH alla CTV, al programmatic.

“Più che di connected media, io preferirei definirli come mezzi che sono stati ‘raggiunti’ dal digitale, che rispondono ad altre logiche – di pianificazione, di targetizzazione, di audience building”. Va dritto al punto Nereo Sciutto, per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. “Questa è la differenza fondamentale: man mano che sono investiti dal digitale, tutti i mezzi tradizionali si sono trasformati e si sono rinnovati, dando origine anche a nuovi media, che per la loro complessità non potevano più rientrare nella definizione precedente. Come il digital audio, che è qualcosa di ben diverso dalla semplice radio (o digital radio), e la connected tv, che sulla smart television ha finalmente abbattuto le barriere all’ingresso di un tempo, sostanzialmente abbassando gli enormi costi necessari per avere una pianificazione efficace. Ma anche nell’esterna, dove il DOOH ha portato il programmatic planning a rivoluzionare i modi classici di pianificazione”.

“Perché il digitale porta con sé il dato, c’è una vera rivoluzione che non è stata ancora assorbita pienamente: basti pensare a dove sono allocati attualmente i budget, perché vi sono numeri crescenti di mezzi ‘a cavallo’ tra il pure digital e il media tradizionale. La ricerca Branding Evolution, realizzata dal Politecnico di Milano con UPA, ha indagato dove sia la governance dei mezzi a cavallo fra digitale e tradizionale. A volte i budget sono in capo all’offline, a volte all’offline ma è possibile che si arrivi a ripartizioni dove il digital outdoor viene pianificato dal responsabile digital mentre l’outdoor fisico è pianificato dall’offline. È solo uno dei casi possibili di governance all’interno delle aziende, ma dobbiamo tenere presente che per un consumatore non fa differenza se il messaggio sia su un cartellone o su un megaschermo: occorre che sia coerente, che sia adeguato al contesto, che sia una sorta un racconto che si sviluppa e si elabora su tutti i mezzi senza soluzioni di continuità”.

Tra le criticità del Connected Media vi è la misurazione: misurazione dalle attività, misurazione delle audience, e misurazione dei risultati. Come sta evolvendo la situazione in questo comparto? Come si arriva dalla misurazione puntuale tradizionale a una misurazione crossmediale?

Oggi sotto questo profilo siamo ancora in mezzo al guado. Per una pluralità di ragioni: innanzitutto perché all’inizio c’era la domanda del mercato, ma mancava il prodotto utilizzabile. Si pensi a Netflix quando ha aperto alla pubblicità: nel primissimo periodo non è riuscita a erogare le campagne acquistate dai clienti perché non aveva un numero sufficiente di abbonati alle soluzioni ad-supported. Poi per la complessità intrinseca al digitale: nella pianificazione tradizionale contavano anche i rapporti personali tra investitori ed emittenti televisive, mediati magari dai centri media che potevano far valere le dimensioni complessive degli acquirenti. Con il dato tutto questo cambia drasticamente: la possibilità di pianificare per aree geografiche, per tipologia di target, di investire in funzione delle impression o delle action, e così via, ha fatto sì che ogni operatore abbia sviluppato le ‘sue’ metodologie di misurazione, contribuendo alla complessità generale, invece di tentare un’efficiente semplificazione. Non resta che contare sugli sforzi di UPA, cioè degli investitori, che in ultima analisi sono il motore di tutto il sistema, per arrivare a una soluzione condivisa e utilizzata da tutti.

Creator, marche e consumatori: come si risolve concretamente questa triplicità di soggetti, soggetta talora a dinamiche divergenti, in mondo sempre più segnato da personal brands, aziende DTC e social media?

Al momento il DTC è ancora un’eccezione nel panorama delle industry: i brand fanno fatica a raggiungere il consumatore senza ‘passare’ per i media. E ‘media’, in Italia, ha sempre significato soprattutto televisione. Quello che è cambiato è il numero degli attori, un tempo ridotto a Rai e Mediaset, con l’aggiunta dei terzi e quarti poli, molto più piccoli dimensionalmente, e oggi proliferato a decine, se non centinaia, di canali. Tipicamente gli investitori per risolvere questa complessità usano piattaforme, quindi i rapporti sono machine-to-machine: alla fine una tal impression viene comprata sul tal media rispetto a un altro perché le condizioni di acquisto sono migliori o perché l’audience che misura la macchina è più affidabile. In certi settori, tuttavia, l’essere ‘troppo’ numerici non è la soluzione, perché alcuni investitori vogliono essere ‘posizionali’, anche pagando di più: così le piattaforme offrono la possibilità di comprare spazi con i private deal, con accordi garantiti, e accordi privati. In quel caso il rapporto diventa personale ma solo con i due o tre media di maggiore interesse, mentre per il resto ci si affida al programmatic.

In questo scenario i creator sono la variabile ‘impazzita’, vanno a erodere i budget media ma sono in difficoltà a fornire solidi KPI per misurare i risultati dell’attività: sicuramente sono efficaci nella conversion e nella activation, mentre è più aleatorio il risultato in termini di awareness. In ogni caso, a mio parere, in generale svolgono un’attività complementare e non sostitutiva a quella media.

L’attention sta diventando una currency usata spesso per misurare l’efficacia di una comunicazione o di una campagna: come si concilia questo con lo scenario crossmediale, di one2one communication, che si sta profilando? Come si può guadagnare attenzione in un mercato sempre più affollato?

Le metriche di attention rappresentano uno sforzo di diversi player dell’industria digitale di andare oltre le classiche e ‘più semplici’ metriche di viewability o CTR/VTR cercando, in un certo senso, di misurare la capacità di un formato pubblicitario di entrare nella mente del consumatore. L’intento è lodevole, quello che però a oggi manca è uno standard condiviso. I diversi player usano infatti una combinazione di tecnologie e metodologie proprietarie rendendo difficile la comparazione fra i diversi studi sull’attention. Anche in questo caso, l’intervento di un regolatore o un accordo all’interno del mercato può aprire – o chiudere – le porte al consolidamento di questo tipo di misurazione. Tutto nell’interesse dell’investitore pubblicitario che vuole ottenere il massimo dal proprio investimento.