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L’influencer marketing dei grandi numeri sta stancando gli utenti dei social media, sempre più simili a mini-televisioni istantanee: è la ‘influencer fatigue’

Influencer Fatigue
di Massimo Bolchi

In Italia, paradossalmente, la cosa è passata un po’ in secondo piano per la disavventure che hanno colpito la nostra influencer più famosa – un vero e proprio personal brand – Chiara Ferragni che, inguaiata dall’ormai noto ‘caso pandoro’, ha visto calare di colpo (e in alcuni casi chiudere) le lucrose collaborazioni con aveva con i brand più celebri, oltre al crollo delle vendita dei prodotti a marchio proprio. A tutto questo si sono aggiunte la vicende personali con il marito Fedez, su cui è opportuno cada il silenzio essendoci di mezzi due minorenni incolpevoli, ed ecco che la grande maggioranza delle attenzioni si è concentrata morbosamente sulla vicenda, trascurando quello che accade in un mondo infinitamente più esteso, quello dei creator e degli influencer tout court, che mostra una inattesa, ma per alcuni versi non troppo sorprendente, ‘stanchezza da influencer’.

L’influencer fatigue

A partire da quello che sta accadendo oltre Atlantico, infatti: sui social media, gli utenti sono costantemente bombardati da video o foto di consigli sui prodotti, acquisti, unboxing, viaggi stravaganti di influencer e creator che li indirizzano ai loro TikTok Shop e alle vetrine di Amazon. Ma l’influencer marketing sta subendo un’importante trasformazione perché i giovani sono semplicemente un po’ stanchi di questo tipo di attività: ecco allora che emerge la ‘influencer fatigue’, e la voglia di novità e autenticità. Per i brand, questo potrebbe sembrare un cambiamento totale rispetto all’adattamento a collaborare con chi è più in voga su TikTok nel momento dato, e potrebbe essere terrificante nel lungo periodo, ma è una mossa necessaria per coinvolgere i giovani consumatori che vogliono solo vedere persone più simili a loro che agiscono sui social.

Infatti, nonostante l’esposizione e la ricerca dei ‘mi piace’ degli influencer, questo non significa necessariamente che gli spettatori (a questo si sono ridotti i social: un ennesimo canale tv, con un attention span che si misura in alcuni secondi) si fidino delle loro raccomandazioni: secondo una ricerca di Ypulse, infatti, il 78% dei giovani consumatori concorda sul fatto che gli interessi di più quello che compra un amico di quello che compra un influencer. Il fatto di vedere l’indicazione #ad obbligatoria, poi, rende alcuni di questi post sponsorizzati un po’ sospetti: si tratta di influencer che ‘amano’ davvero il marchio o lo affermano solo in quanto sponsorizzati?

Inoltre l’eccessivo numero di pubblicità di influencer sui social media lascia molti giovani consumatori disillusi dalle raccomandazioni. Un sorprendente 61% dei giovani tra i 13 e i 39 anni concorda sul fatto che più pubblicità fa un influencer, meno ci si può fidare di lui. I brand dovrebbero perciò ricordare che esiste un delicato equilibrio tra contenuti promozionali e coinvolgimento autentico, ma di questo la maggioranza dei brand dimostra di essere finalmente cosciente. L’allarme scatenato l’anno scorso dall’esplosione del ‘deinfluencer marketing’ sembra essere servito, anche se in Europa è arrivato con qualche mese di ritardo.

Gli influencer non hanno più il potere di una volta

La ricerca dimostra anche che l’opinione espressa dai giovani sulle raccomandazioni degli influencer è chiara: vogliono la concretezza più che il glamour: un significativo 44% dei giovani tra i 13 e i 39 anni concorda sul fatto che gli influencer non hanno più il potere di una volta. Non è la stessa cosa per i brand lanciati dalle celebrity, che attirano l’attenzione di milioni di follower e dei media. Personaggi che sono essi stessi dei marchi e che sfruttano la loro fama per creare rapidamente consapevolezza e assicurarsi accordi di distribuzione. In effetti, questo modello è molto diverso da quello dell’influencer/creator generico e mantiene (fino a quando?) una sua credibilità, differente ma tutto sommato autentica.

In questo scenario, sostanzialmente analogo su entrambe le sponde dell’Atlantico, fa parzialmente eccezione, in Europa, la Francia, dove il 38% dei francesi di età compresa tra i 13 e i 39 anni (vale a dire nove punti in più rispetto alla media degli altri giovani europei, tra cui inglesi, tedeschi, spagnoli e italiani) dichiara di essere più propenso ad ascoltare il consiglio di un prodotto da parte di un influencer con una grande comunità di follower rispetto a uno più piccolo.

L’engagement è in declino

La maggior parte dei contenuti pubblicati oggi non genera engagement (59% secondo la ricerca di NP Digital): i contenuti degli influencer vengono creati sempre meno per ottenere informazioni o per intrattenere il pubblico. Si tratta invece di contenuti curati per catturare rapidamente l’attenzione in un ambiente in cui si può saltare il video o scorrere velocemente alla ricerca del prossimo. Ciò significa che gli influencer stanno assistendo a un calo della visibilità e dell’engagement dei loro post, e la cosa sta colpendo i loro profitti. Tutto questo avviene in concomitanza con un boom dei retail media e con l’introduzione di formati shoppable.

Inoltre, i marketer hanno migliorato la misurazione dell’impatto commerciale dei loro investimenti. In particolare, fanno molto meno affidamento sulla modellazione dell’attribuzione. L’orientamento al ROI a breve termine ha favorito a suo tempo l’influencer marketing, ma la visione globale che i marketer hanno ora del loro spending, oltre alle prestazioni in calo degli stessi influencer, stanno portando a un rapido calo delle loro entrate. Ovviamente, gli influencer si stanno riallineando in fretta a questo mutamento, diventando un tipo di affiliato puro e/o sviluppando un reddito aggiuntivo da dropshipping.

immagine di copertina creata con la GenAI di DALL-E