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La digital tax va ancora discussa: rischio doppia imposizione per alcuni soggetti, e incidenza irrisoria per i Tech giant. L’opinione di Carlo Noseda, Presidente di IAB Italia

Carlo Noseda, Presidente IAB Italia

La ‘digital tax europea’ potrebbe partire nella secondo metà del 2021: nell’accordo sul Next Generation Eu dovrebbe essere inclusa anche una tassa sui giganti del web, che potrebbe fruttare fino a 1 miliardo di euro l’anno. Il punto di partenza è il lavoro dell’Ocse sulla tassazione delle aziende con una presenza digitale significativa e i proventi dovrebbero andare a finanziare direttamente il bilancio Ue 2021-2027. Gli Stati Uniti, sede della maggioranza dei Tech giant, elevano ancora la loro obiezioni a questo accordo che, complice la pandemia e il cambio della Presidenza, oltreoceano non è considerato al momento particolarmente urgente

Ma intando la ‘digital tax’ nazionale è già una realtà e l’Agenzia delle Entrate ha comunicato che entro il 16 marzo 2021 dovrà essere effettuato il relativo versamento. Come è noto, la digital tax italiana, introdotta dalla Legge di Bilancio 2019, consiste in un’aliquota del 3% sull’ammontare dei ricavi tassabili realizzati nel corso dell’anno solare, applicata a quei soggetti che realizzano, ovunque nel mondo, singolarmente o congiuntamente a livello di gruppo, un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni di euro; e percepiscono nel medesimo periodo un ammontare di ricavi da servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni di euro nel territorio dello Stato.

“La digital tax così come scritta rischia di non assolvere il compito per cui era stata fortemente voluta da più parti, IAB compresa”, ha però dichiarato Carlo Noseda Presidente di IAB Italia. “Prima di tutto l’ambito soggettivo, che così come impostato rischia di innescare una doppia imposizione fiscale per tutte quelle aziende che, pur rientrando nei perimetri previsti dalla digital tax, già pagano le imposte dovute; secondo, un prelievo del 3% è da ritenersi irrisorio verso gli OTT oltre che limitativo non solo perché è la più bassa imposizione che esista in Italia, ma anche perché è tout court uguale per tutti, indipendentemente dalla reale capacità contributiva di un’azienda che opera nei servizi digitali. Piuttosto bisognerebbe identificare un’aliquota congrua che tassi i ricavi derivanti dai servizi digitali in maniera progressiva. Si tratterebbe tra l’altro di un veicolo di attuazione del principio costituzionale di progressività delle imposte, volto a riequilibrare l’attuale assetto concorrenziale ove pochi player detengono una posizione dominante a discapito delle altre aziende”.

Ecco allora un’idea che prenda il posto dell’attuale digital tax, frutto di una conoscenza diretta del mercato italiano.

“Perché non pensare a una flat tax del 15/20% per tutte le aziende che investono nel digitale in Italia? Una soluzione di questo tipo stimolerebbe gli investimenti e creerebbe aziende innovative anche in Europa e Italia”, è la proposta di Noseda. “La fiscalità non deve essere vista solo come un semplice ‘recupero’ per le casse dello Stato, ma deve anche incentivare la nascita di piattaforme digitali locali. Il suo obiettivo deve essere di lungo respiro e atto a realizzare lo sviluppo di un’industria strategica per la crescita dell’economia nel suo complesso, ma che vive da anni un assetto concorrenziale assente, con gli OTT che hanno in mano la maggioranza e che possono contare su ingenti risorse finanziarie derivanti da un gettito fiscale pari a nulla. Il valore dell’industria digitale porta con sé rinnovamento e trasformazione in tantissimi altri settori adiacenti. L’importanza strategica di questa imposta è ancora più evidente e pertanto andrebbe correttamente ridefinita”.

L’intervento di Noseda si chiude con un richiamo collettivo all’Europa: “in questo quadro l’Italia così come l’Europa – anche alla luce delle recenti scelte politiche americane – hanno l’occasione di giocare un ruolo fondamentale per introdurre regole certe e un’azione fiscale equa, estendendo così l’approccio trasparente a tutti i Paesi per evitare nuove o ulteriori distorsioni di mercato dell’economia digitale”.