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Il ‘free speech’ al centro della querelle Twitter-Musk

Elon Musk, CEO di Tesla

La vicenda di Twitter si ingarbuglia sempre di più. Iniziata con una mossa, l’acquisto del 9,8% della azioni del social media da parte di Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo secondo la classifica di Forbes, la strada sembrava aperta per un partecipazione ben accolta dal board di Twitter, che aveva offerto a Musk un posto nel Consiglio di Amministrazione, come riconoscimento del suo essere diventato, nel giro di qualche settimana, il maggior azionista.

Ma i problemi si erano manifestati sin da subito: l’offerta era stata rifiutata (o meglio Musk era stato ‘spinto’ a rifiutarla) il giorno stesso in cui avrebbe dovuto entrare a far parte del board, mentre crescevano i rumor su un ulteriore intervento a sorpresa che avrebbe sbloccato la situazione. Va detto che, come suo costume, Musk aveva nel frattempo iniziato a pubblicare tweet sulla cose che non funzionavano, a suo parere, su Twitter. Ed erano molte…

Poi, improvvisamente, l’offerta di acquistare tutte le azioni e rendere privata la società. Questa ‘last and final offer’, a un prezzo di molto superiore al valore azionario di Wall Street, è accompagnata dall’annotazione  (e minaccia) che non potrà essere migliorata, e che – se rifiutata – Musk ne avrebbe tratto le dovute conseguenze, perché, così come è ora, “Twitter non è in grado di sviluppare appieno il suo potenziale”.

L’offerta non è stata immediatamente rifiutata dal Board, che si è riservato di studiare la questione, ma alla fine ha concluso che questa offerta è un takeover ostile, e ha deciso di ricorrere a una ‘pillola avvelenata’ per rendere più difficile il tentativo di Musk. I dettagli non sono ancora stati rivelati – lo saranno probabilmente verso la fine di aprile con la presentazione dei risultati della trimestrale – ma a grandi linee la linea operative è conosciuta: verrà data la possibilità ad alcuni azionisti di aumentare la propria partecipazione a un prezzo scontato, diluendo così la quota di Musk e quelle che potrebbe acquistare in futuro.

Nel frattempo, però, anche altri finanziatori si sono mossi: tra questi spicca l’Apollo Global Management, un fondo di investimento di private equity che ha acquistato qualche mese fa Yahoo da Verizon Media per 5 miliardi di dollari, che si è detto disponibile a sostenere chi vorrà acquistare le azioni di Twitter. Si, perché oltre a Elon Musk, che è venuto allo scoperto con la sua offerta, c’è anche Thoma Bravo, società di private equity specializzata in investimenti in aziende tecnologiche e software, con in gestione oltre 103 miliardi di dollari di asset, che vorrebbe aumentare la propria partecipazione nella piattaforma.

Anche altri grandi azionisti si sono schierati, come Alwaleed bin Talal, principe della casa reale dell’Arabia Saudita e proprietario della Kingdom Holdig Company, che ha affermato che l’offerta è insufficiente, perché non riflette il reale valore potenziale di Twitter. Qui la sfida, pubblica, è a base di tweet, e Musk, privo della tutela legale impostagli dalla SEC per Tesla, ha dato il meglio di sé: prima ha chiesto quante siano le azioni di Twitter, direttamente o indirettamente, possedute dall’Arabia, poi ha domandato provocatoriamente quale fosse la posizione ufficiale dello Stato saudita in merito al ‘free speech’, una delle motivazioni presentate come centrali nella sua acquisizione.

Non è stato trascurato neppure il board, diventato ostile, a cui Musk ha dedicato alcuni tweet pungenti, sottolineando che dovrebbero essere gli azionisti a decidere se vendere o meno, e non i dirigenti, e anticipando che, in ottica di risparmi, si potrebbe iniziare dai 3 milioni che costa ogni anno il board.

Ma ufficialmente al centro della contesa c’è l’interpretazione del concetto di ‘free speech’: per Musk, un libertario probabilmente anarchico, non dovrebbe esiste censura sulla piattaforma: tutti dovrebbero (o dovranno) avere a possibilità di dire ciò che vogliono. Starebbe agli utenti fare ciascuno le proprie scelte, leggendo e condividendo. In quest’ottica anche l’algoritmo, quello che fa salire o abbassa il rating delle notizie e dei commenti, dovrebbe essere open source e aperto al controllo di tutti. Un sondaggio lanciato dallo stesso Musk sull’argomento ha visto una schiacciante maggioranza schierarsi a favore all’open source. Segno che qualche cosa non funziona sul social media.

Di contro però, i giornalisti, soprattutto quelli liberal, e l’establishment culturale progressista, che rappresentano il fiore all’occhiello di Twitter, si sono schierati contro l’ipotesi di ‘nessuna censura’. Se diventasse il proprietario di Twitter, Musk invertirebbe i progressi fatti dalla piattaforma contro l’odio e le molestie, hanno sostenuto. In altre parole, con lui ci sarebbe il rischio che Donald Trump torni a twittare, e che ciò che è considerato fake news non venga più cancellato o nascosto alla vista. Poco importa però al New York Times o al Washington Post che i portavoce dei talebani o di Xi Jinping abbiano libero accesso sulla piattaforma per promuovere le loro verità. Non sono occidentali, è l’inespresso pensiero sottostante, nella più truce interpretazione stile ‘Black Lives Matter’, e ‘la cosa non ci riguarda’. D’altra parte, la stampa statunitense riporta anche le opinioni espresse da alcuni membri del Consiglio di Amministrazione del social network, che avrebbero delle ragioni etiche per opporsi all’acquisto, dal momento che le proposte di Musk verrebbero viste da molti dirigenti della piattaforma come un tentativo di “buttare alle ortiche il grosso del talento e degli sforzi di Twitter”, cosa che il board dei dirigenti vede come gettare una bomba su qualcosa che amano.

La cosa curiosa, però, è che nel board, con l’uscita a fine anno del fondatore Jack Dorsey, non sono presenti azionisti, gli unici che sarebbe titolati a esprimere un parere sull’acquisizione di Musk, come peraltro ha evidenziato l’ennesimo tweet del magnate sudafricano. Viene il sospetto che che alla base della strenua difesa di Twitter non ci sia genericamente ‘un amore per la verità’, ma il timore che la piattaforma cessi di essere l’alfiere del politically correct, il sapere che in una Twitter proprietà di Musk e soci sarà più difficile cacciare chi non la pensa come le élite.

In nome della ‘moderazione’ e della difesa della ‘verità’ su Twitter è diventata pratica accettata la censura delle opinioni che tendenzialmente vanno contro le idee della sinistra progressista. Seppure in crisi da diversi anni dal punto di vista dei risultati economici, Twitter è riuscito a diventare una ‘bolla’ che di fatto determina il sentiment del discorso pubblico, quasi sempre in un verso solo.

Per Musk la libertà è più importante della verità, ha scritto il direttore della rivista Wired, la ‘bibbia’ dei benpensanti americani. Ma se quelli che hanno timore della libertà tentano di imporre una ‘propria’ verità, che accade? Il dilemma è realmente cornuto…