“L’Addressable Media non è un’evoluzione del Programmatic, direi piuttosto il contrario: è il Programmatic che può essere considerato Addressable Media poiché, sin dalla sua nascita, grazie alla possibilità di segmentare le audience, sfruttando le piattaforme e l’acquisto diretto degli spazi tramite aste, utilizzando tecnologie che indirizzano la distribuzione dei contenuti, è addressable per eccellenza”. Non ha dubbi al riguardo Gaetano Polignano, Country Manager Italia di TRADELAB, che prosegue: “Ora altri media stanno diventando addressable, come la televisione, il digital out of home, e la radio. È come se il programmatic dall’online si stesse allargando agli altri media. Il funzionamento è esattamente lo stesso: un contenuto viene messo all’asta, aperta a moltissimi compratori. Un’asta corredata da una quantità di informazioni: dal formato al time stamp, al sistema operativo, al costo, al device. A queste se ne aggiungono altre relative all’utente che sta guardando l’impression in quel momento. Appare quindi evidente che queste informazioni danno la possibilità di generare strategie di pianificazione sempre più raffinate, gestite in automatico dal dato”.
Mi sta dicendo che si assiste a uno spostamento della domanda degli investitori verso l’audience buying?
Effettivamente si riscontra una richiesta sempre crescente di campagne user-centric rispetto a quelle contestuali, proprio come conseguenza dell’affermazione sempre più ampia del programmatic. Le strategie si stanno spostando sull’utente, sia per evitare dispersioni, sia per risultare più efficaci. In sintesi: per ottenere performance superiori. Anche le attività di branding, ormai, richiedono questo tipo di KPI: c’è chi afferma che alla fine tutto questo di tradurrà nella morte della pubblicità, come attività creativa volta alla costruzione di una marca. E c’è chi sostiene invece che si tratta solo di una delle tante evoluzioni che hanno marcato fin qui la storia della comunicazione commerciale.
D’altra parte gli inserzionisti chiedono KPI misurabili per le attività sia di branding sia di performance perché, con le informazioni disponibili, targetizzare l’utente invece del contesto è un passaggio naturale. In fondo è questa la promessa del programmatic: raggiungere l’utente giusto, al momento giusto, con il messaggio e il prezzo giusto. Essere user-centric diventa essenziale perché così si raggiunge l’utente nel momento in cui ha bisogno, o sta cercando, un determinato prodotto.
Per contro non ci si può limitare solo a un’attività specifica, per quanto importante. Bisogna convincere il consumatore, prima che la sua esigenza si manifesti, che una certa marca è la migliore per lui. E per fare questo servono attività di branding, di posizionamento e costruzione della marca in termini creativi. Non dobbiamo pertanto rincorrere solo i big data e gli approcci user-centric, ma mixare correttamente le due strategie.
Quindi la comunicazione continuerà a essere creativa, indipendentemente dall’affermazione del programmatic?
Certamente! Le dirò di più: guardiamo le pubblicità trasmesse dell’ultimo Superbowl. Come concept sono uguali: nostalgiche, con personaggi e atmosfere degli anni 80/90. Questo perché tutti studiano i dati per conoscere quali siano le preferenze del loro target, i millennial e le ultime parti della generazione X, che arrivano fino a un’età di 45 anni. In altri termini questo è il rischio dell’eccesso della comunicazione data-driven: seguire un indirizzo mainstream invece di creare nuove forme di comunicazione, capaci di fare una reale differenza quando sono trasmesse. L’attuale fase è quasi un’ubriacatura del data-driven, che è diventato un must, ma alla fine si tornerà a sviluppare creatività mediata dal data-driven, capace di correggere e di dare nuovo impulso della comunicazione di marca.
Passiamo all’ultimo media a essere diventato addressable, la televisione. Anche qui si sta andando verso l’omologazione?
La televisione sta per cambiare per sempre, e qui non sono io a dirlo ma studi internazionali che concordano su questo fatto. La presenza di operatori tradizionali affermati, di nuove emittenti come Netflix o Prime Video, dei new entrant Disney o Apple, di giganti del tech che stanno acquisendo i diritti dei maggiori avvenimenti sportivi, conferma che si sta andando verso un contesto dove i contenuti saranno sempre più importanti.
C’è uno scenario anglosassone dove le App dei vari broadcaster avranno sempre maggiore spazio, e la televisione si ridurrà a uno schermo gigante dove troveranno spazio i contenuti diffusi – a pagamento o free – dalle app mobili. E c’è uno scenario alternativo dell’Europa continentale, in particolar nell’area Mediterranea, che vede la televisione mantenere la sua importanza, ma con la pubblicità diffusa dagli adserver in ottica programmatic.
Come cambieranno le strategie, viste con l’occhio dell’investitore pubblicitario? Quali difficoltà si prevedono?
Innanzitutto, i publisher differiranno il più possibile l’arrivo completo di questo cambiamento, che porta con sé una transizione epocale, sia nell’ottica dello spettatore, che però ha già dimostrato di sapersi adattare in fretta, sia in quella delle concessionarie. In generale ci si può aspettare un ribasso dei prezzi, in quanto gli spazi verranno valutati in termini sia quantitativi sia qualitativi. Poi verrà rivoluzionata la struttura di vendita attuale, poiché gran parte del commerciale dovrà essere riconvertito ad altre funzioni man mano che l’acquisto programmatico prenderà piede. Anche i clienti saranno inizialmente molto prudenti, ma alla fine saranno conquistati dalle nuove logiche. Complessivamente, si raggiungerà un nuovo equilibrio in cui prevarranno gli aspetti positivi del cambiamento.