Secondo un’indagine della Commissione UE oltre il trenta per cento dei siti di shopping ricorre a espedienti e trabocchetti per persuadere gli utenti a fare acquisti con modalità non realmente vantaggiose per loro, o indurli a rinunciare alla loro privacy con ‘dark pattern’ studiati ad arte per ottenere consensi per usare i dati a loro proprio tornaconto.
E di recente certe tattiche ingannevoli sono costate care anche ad Amazon, che è stata sanzionata per oltre 7 milioni di euro dall’autorità antitrust polacca per avere inserito informazioni importanti sulle condizioni di vendita riportandole scritte in grigio su sfondo bianco nella parte inferiore dell’ultimo passaggio della procedura d’acquisto, e quindi difficilmente percettibile anche dai clienti più attenti.
Ma spesso le multe inflitte alle Big Tech non hanno sortito l’effetto dissuasivo che si proporrebbe l’art. 83 del GDPR, come fa notare Nicola Bernardi, Presidente di Federprivacy: “Quando fu introdotto il Regolamento europeo, le sanzioni fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato dei trasgressori sembravano spaventare le aziende, e in questi anni buona parte dei circa 5 miliardi di euro delle multe sono state inflitte proprio ai colossi del web, che però finora non hanno dato un buon esempio di etica, limitandosi a pagare sistematicamente dazio per poi continuare nel loro business basato sui dati”.
Sebbene il mondo istituzionale e la comunità degli addetti ai lavori sollevino a gran voce la necessità di norme etiche per creare uno sviluppo sostenibile della nuova civiltà digitale, molte aziende sono però attualmente ben lontane anche dal rispetto delle stesse prescrizioni del GDPR e delle indicazioni fornite dal Garante.