Non c’è nulla da fare: sarà pure l’uomo più ricco della Cina, quel Jack Ma proprietario di Alibaba e di Aliexpress, ma non può fare e dire quello che desidera, se il partito non è d’accordo.
Mancava davvero poco per la più grande IPO al mondo: il giorno 5 novembre sarebbe partita presso le Borse di Shanghai e di Hong Kong la collocazione al pubblico dell’11% della azioni di Ant, la tech company finanziaria dal Gruppo, che – nata per facilitare l’eCommerce di Alibaba – è diventata strada facendo un impero che svolge tutti i ruoli in partita, da carta di credito per i pagamenti tramite Qr Code a piattaforma di investimento aperta a tutti i cinesi (e non solo a loro).
L’importo previsto per la IPO era fantasmagorico: oltre 37 miliardi di dollari, il maggior valore raggiunto in tutto il mondo per questo genere di operazioni, che avrebbe ‘trasferito’ ad Ant una capitalizzazione analoga a quella di operatori dalle ben diverse radici storiche, quali ad esempio la statunitense Bank of America.
Poi ieri il colpo di scena: il Commissione della Borsa di Shanghai, la Shanghai Stock Exchange, riportata dall’agenzia di stato cinese Xinhua, fa sapere “che il gruppo aveva segnalato importanti problemi, inclusi cambiamenti nel contesto di supervisione ai servizi di tecnofinanza, che avrebbero potuto provocare il mancato rispetto dei requisiti di quotazione o dei criteri relativi alla corretta divulgazione delle informazioni”.
Ant Group, con i suoi 730 milioni di utilizzatori cinesi, si è prontamente scusata con gli investitori e ha fatto sapere di avere sospeso anche la quotazione a Hong Kong, e che attenderà ulteriori comunicazioni dei regolatori riguardo ai prossimi sviluppi.
Ma che cosa era accaduto nei giorni scorsi per spiegare questo stop improvviso, e – quanto meno per il fondatore di Alibaba – inatteso? Jack Ma, in un discorso durante un importante forum finanziario a Shanghai a fine ottobre, aveva dichiarato che l’eccessiva attenzione dei regolatori ai rischi poteva soffocare l’innovazione e che il rischio sistemico non è il tema, in Cina. Piuttosto, il rischio più grande è “l’assenza di un ecosistema finanziario”, con banche cinesi che sono come “banchi dei pegni” del secolo scorso. Ma, aveva aggiunto, “non è possibile usare i metodi del passato per gestire il futuro”. Immediata la risposta di Guo Wuping, Direttore dell’Ufficio per la tutela dei consumatori, affermando che le società fintech non dovevano essere considerate diversamente dagli altri operatori finanziari e anzi avevano commissioni più alte delle banche tradizionali, “cosa che aveva messo nei guai numerose famiglie”.
In realtà le banche in Cina sono tutte di proprietà dello Stato, che ovviamente è come dire del Partito Comunista Cinese. E la concorrenza può non essere gradita. La libertà economica garantita dal sistema capitalista di Stato esistente in Cina è strettamente vincolata al rispetto di quelle convenzioni silenziose che sono ben conosciute anche dall’ultimo netturbino di Bejing: lavora, arricchisci, ma non mettere mai in dubbio che il proprietario ultimo di tutto è lo Stato (o il Partito, che è poi la stessa cosa)
Oggi le quotazioni della azioni di Alibaba sono calate del 7% circa, pari a 76 miliardi di perdita, il doppio di quanto Ma sperava di guadagnare dall’IPO.
Il messaggio senza dubbio è arrivato forte e chiaro, e si può essere certi che certe affermazioni ‘pericolose’ non saranno ripetute da Jack Ma. O da chiunque altro, per quello che conta. Perché quello che non va dimenticato in Cina è che il Segretario del Partito, oggi Xi Jinping, è colui che tira tutti i fili del mercato: basta un suo cenno e lo operazioni si bloccano, le aziende si fermano. Con buona pace anche di quelle, come TikTok o Huawei, che sostengono (a parole) di non subire alcuna influenza dello Stato nelle loro operazioni.