L’idea è venuta a Valentina Amenta, direttore creativo FCB Milan, o meglio, è stato grazie a lei che questo giro di microfoni è nato,alla ricerca di direttori creativi donna. Perché, diciamolo, era da tempo che youmark ci pensava, ma non sempre siete così palesi. E’ vero siete poche, ma in più, e qui magari un mea culpa va fatto, ve ne state un po’ in disparte. Non che le luci della ribalta siano sinonimo di valore, ma se non comunicate, il rischio è il calzolaio dalle scarpe rotte. Invece c’è bisogno di conoscervi. Dovete fare squadra, in nome di una professione e di un mercato che senza il vostro sguardo avrebbero molto da perdere. Tornado a Valentina, quindi, grazie per averci supportato nel segnalarci i vostri nomi e ne definire con noi delle domande che vogliamo porre a ognuna, intervista dopo intervista, sino a conoscervi tutte.
Vi presentiamo Anita Rocca, direttore creativo VMLY&R.
Perché i direttori creativi donna sono in minoranza, in Italia e nel mondo?
“In generale, credo che la situazione non sia molto diversa da quella degli altri settori. La presenza della donna in ruoli più manageriali ha preso piede solo negli ultimi decenni. Poi, in Italia più che all’estero, la possibile maternità è spesso un deterrente, per il datore di lavoro ma soprattutto per la donna stessa. I ritmi di agenzia sono intensi e farli coincidere con il fatto di poter essere anche una mamma non è semplice. Non impossibile, ma occorrono molta determinazione e soprattutto passione. Infine, aggiungerei che probabilmente non tutte le donne sono interessate a ricoprire questo ruolo, almeno per ora”.
Però questa è una industry ricca di donne, cosa manca per permettere loro di fare carriera, cosa vorresti cambiasse?
“Più che mancare qualcosa ci sono giusto quei 1500 anni di storia di troppo che hanno visto la donna dedita ai figli e alla casa e gli uomini fare strada sul lavoro. Direi che a questo punto serve pazienza, le cose stanno cambiando. I tempi stanno cambiando. Penso anche che in alcuni casi possa esistere il pregiudizio da parte di molte donne di non poter avere la stessa leadership che esercita un uomo, soprattutto in relazione ad altri uomini. Quindi in questo caso, se l’obiettivo è quello di fare carriera, dovrebbe cambiare la fiducia che abbiamo nelle nostre possibilità”.
Nella tua storia personale, qual è la difficoltà maggiore che hai trovato e a chi o a cosa dai invece il merito per avercela fatta?
“La difficoltà più grande è sapere che spesso le battaglie che intraprendiamo probabilmente saranno perse ma continuare ad affrontarle ogni volta come se non lo sapessimo. Il merito devo darlo sicuramente a chi mi ha insegnato sia il mestiere che come affrontarlo, a iniziare da Federica Ariagno, che tra le altre cose mi ha gettato nella fossa dei leoni insegnandomi a convivere in un open space con soli uomini. Da ogni persona con cui ho lavorato ho imparato qualcosa di diverso. In particolare, un’agenzia come AUGE Headquarter, in cui sono cresciuta, essendo una realtà piccola rispetto a una multinazionale, mi ha dato modo di osservare e affrontare da subito ogni aspetto del lavoro di agenzia. Mi sento anche di citare tra i ‘chi’ Cecilia Moro, direttore creativo VMLY&R, che altrimenti si offende.
Altro merito devo darlo al fatto che, nonostante tutto, il mio lavoro mi piaccia. Che è fondamentale per affrontare situazioni, orari e dinamiche che altrimenti sarebbero insostenibili”.
La campagna di cui sei più orgogliosa e quella che ti piacerebbe aver firmato?
“Questa è difficile. Sicuramente uno dei lavori a cui sono più affezionata è la campagna IKEA ‘Grow up together’, per la naturalezza con cui è nata e il tono di voce che siamo riusciti a dare al brand.
Campagne che vorrei avere firmato, dirne una è difficile. Se potessi dirne tre citerei ‘Find your greatness’ di Nike, per la forza che ha nella semplicità, e la campagna di Snikers ‘You are not you when you are hungry’, per l’insight molto forte su cui è costruita. Poi ‘The comeback’ di Audi per il pensiero laterale. E perché mi fanno ridere i T- rex”.
Prossime sfide?
“Ne avrei tre. La prima, vorrei arrivare a Cannes (grazie, chi no?) ma con una campagna che potrebbe piacere anche a mia nonna. Perché in fondo il nostro lavoro è questo, trovare belle idee ma che siano rilevanti per le persone, non solo per una giuria. La seconda, formare delle persone che continuino a credere che la bella creatività possa esistere anche in Italia e che è importante mettersi in discussione continuamente. Terza, ma non ultima, trovare una foto decente da associare a questa intervista”.