Un po’ come era stato per “Non ti disunire”. Anche questa frase, non a caso, viene da un film di Paolo Sorrentino, La grazia, che ha aperto mercoledì scorso il Festival, ed è uno dei primi due film italiani in concorso presentati al Lido. L’altro è Oltre le nuvole di Francesco Rosi.
La Grazia
La grazia è nato pensando a un fatto di cronaca, la notizia che il presidente Mattarella aveva concesso la grazia a un uomo che aveva tolto la vita alla moglie malata di Alzheimer. Nella testa di Sorrentino basta uno spunto, un’idea, per costruire un mondo. E così ecco un Toni Servillo controllatissimo nei panni di un presidente di fantasia, un viaggio in un altro mondo segreto, quello del Quirinale, perfettamente ricostruito, dopo il viaggio nel Vaticano delle sue serie tv. “Ci sono assonanze con vari presidenti della Repubblica, Scalfaro, Cossiga, Ciampi, Napolitano, anche Mattarella” ha spiegato Sorrentino. “Tutte figure di grande intelligenza, saggezza, responsabilità, e queste caratteristiche ho voluto portarle nel film”. Quello de La grazia è un Sorrentino con meno vezzi, meno compiacimento, molto più rigoroso (anche se con i soliti colpi di genio), più vicino a Le conseguenze dell’amore ed È stata la mano di Dio che a Parthenope.
Sotto le nuvole
Proprio Napoli è invece ancora al centro dell’altro film italiano in concorso visto fin qui, Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, che sceglie di raccontare la città dai “mille colori” in un modo che sia il più possibile lontano dagli stereotipi, a partire dalla fotografia in bianco e nero. Rosi conferma il suo metodo immersivo, passando moltissimo tempo nei luoghi che racconta, in questo caso tre anni, vagando senza meta per trovare una direzione, un senso, una scrittura. “L’inquadratura deve contenere anche quello che non si vede” gli aveva insegnato Bernardo Bertolucci che, nel 2013, lo aveva premiato qui con il Leone d’Oro per Sacro GRA. E così sotto le nuvole racconta “una Napoli che ne contiene un’altra, in una continua ricerca del fuori campo”.
Il Frankenstein di Del Toro è amatissimo: sarà Leone?
Applauditi, amati, coccolati, i lavori di Sorrentino e Rosi sono piaciuti al pubblico. Ma sono tra i papabili per il Leone d’Oro e altri premi? Difficile dirlo, perché trapela ancora poco. Tra i film più amati c’è sicuramente il Frankenstein di Guillermo Del Toro, kolossal da 150 minuti con un budget da 120 milioni di dollari prodotto da Netflix (lo vedremo al cinema dal 22 ottobre e in piattaforma dal 7 novembre). È una visione molto personale di Del Toro, che rimase colpito dal film con Boris Karloff quando aveva sette anni e ci ha lavorato per trent’anni. Il suo Frankenstein è diviso in due parti. La prima è il racconto del barone Viktor Frankenstein, interpretato da Oscar Isaac; la seconda è proprio quella della “creatura”, interpretata da Jacob Elordi: in questo modo riusciamo a capirne il dolore e la sofferenza. “Quello di Mary Shelley era un libro moderno, non volevo che il film fosse un’opera in costume dai colori pastello. Volevo che Viktor fosse vestito come Mick Jagger a Soho nel 1970” ha spiegato il regista. È probabile che Frankenstein vada a premio: se non il Leone d’Oro, forse un premio a Del Toro o proprio la Coppa Volpi a Jacob Elordi per la migliore interpretazione maschile.
Park Chan-wook: il Leone d’Oro sarà coreano?
Ma Il Leone d’Oro, o anche qualsiasi altro premio, proprio come sopra, potrebbe andare anche a un grandissimo del cinema, il coreano Park Chan-wook che vent’anni fa aveva scioccato Cannes con il suo Oldboy. La sua nuova opera, No Other Choice, è uno sguardo sull’attualità: l’Intelligenza Artificiale e il mondo del lavoro. La storia è quella paradossale di un uomo che viene licenziato dopo 25 anni di onorata carriera e che viene umiliato quando si presenta ai colloqui di lavoro. L’unica soluzione, per lui, è allora quella di eliminare i concorrenti per i posti di lavoro: per eliminare si intende fisicamente… Tratto da un altro film, Cacciatore di teste di Costa Gavras, No Other Choice è una commedia, una farsa con un tocco di noir, che ci parla della direzione che stiamo prendendo, quella di una sempre più insistita disumanizzazione del lavoro.
Sempre a proposito di lavoro
È piaciuto moltissimo – per la storia, la regia e l’interprete principale – anche l’altro film che parla del mondo del lavoro, A Pied d’Oeuvre, della francese Valerie Donzelli, storia vera di un fotografo, Frank Courtes (Bastien Bouillion) che, dopo aver lasciato il lavoro per scrivere, si trova a vivere in povertà. In attesa di veder pubblicato un suo libro, si adatta a un lavoro di tuttofare. È una sorta di moderna Odissea nel mondo del lavoro e nella società odierna, che è raccontata senza pietismo e con una grande prova attoriale del protagonista
E se il miglior attore fosse Adam Sandler?
A proposito di attori. Se hanno un po’ deluso Jay Kelly, il film di Noah Baumbach targato Netflix, e il suo attore protagonista, George Clooney (assente per malattia in sala stampa, ma presente sul red carpet…), la storia di una star in crisi che decide di accettare un premio in Italia, a Pienza, ci ha regalato una grande interpretazione, quella di Adam Sandler, attore comico in realtà capace di offrire sensibilità e sfumature. Nei panni dell’assistente del protagonista è una delle rivelazioni del festival. E se la Coppa Volpi fosse sua?
Bugonia di Lanthimos ha diviso
Non ha convinto appieno anche il nuovo film di Yorgos Lanthimos, Bugonia, ma trattandosi di un autore particolarissimo, aspettiamo di vederlo per dire la nostra. La storia del rapimento della CEO di una Big Pharma (Emma Stone) da parte di due malcapitati (Jesse Plemons e Alain Deibis) che la credono un’aliena che guida un’invasione al nostro pianeta è certamente un’altra storia fuori dal comune. Ma Lanthimos ci ha abituato a racconti di questo tipo. Paolo Mereghetti, sul Corriere della Sera, lo ha definito “inutilmente farsesco, falsamente provocatorio, stupidamente cospirazionista”. Gabriele Niola, su Wired, sottolinea un altro aspetto: “Non c’è la consueta tensione politica dei film più noti e amati di Lanthimos e non c’è nemmeno la sua arroganza formale; anzi, forse questo film su commissione è uno dei suoi lavori più ordinati e meno folli. È quello che mette in luce meglio di altri come, nonostante eccella nella distruzione (più o meno netta a seconda dei film) dello storytelling tradizionale, Lanthimos sia anche un regista che quello storytelling convenzionale lo padroneggia e lo sa usare benissimo”.
Il film su Putin non convince, ma che bravi Jude Law e Paul Dano
Un po’ di delusione anche per Il Mago del Cremlino di Olivier Assayas, seppur con un grande Jude Law nei panni di Vladimir Putin. Il lavoro sul corpo, e sulla postura, i capelli biondastri, radi e pettinati da un lato, lo sguardo: tutto evoca l’oligarca russo in una storia in cui il vero protagonista è in realtà Baranov, il suo consigliere, un personaggio immaginario ma ispirato a Vladislav Surkov, il vero artefice dell’ascesa al potere di Putin, interpretato da Paul Dano.
Leone d’Oro? Proviamo a fare una previsione
Volendo provare a fare una previsione più precisa nella corsa al Leone d’Oro al giro di boa del Festival, si può fare una media delle stellette, da 1 a 5, che i critici quotidianisti presenti a Venezia hanno stilato, così come sono state raccolte dal Ciak Daily presente al Lido. Il film che è piaciuto di più è proprio No Other Choice di Park Chan-wook (3,7), seguito da A Pied d’Oeuvre di Valerie Donzelli (3,5) e La grazia di Paolo Sorrentino (3,5).
Il cinema italiano è vivo. Marco Bellocchio racconta Tortora in Portobello
Il cinema italiano sta comunque bene. Se, fuori concorso, è stato presentato il nuovo film di Luca Guadagnino, ormai autore di livello internazionale, After the Hunt: Dopo la caccia, in cui dirige un’altra grande star di Hollywood, Julia Roberts, e parla di #MeToo, arrivano altre buone notizie. Paolo Strippoli ha presentato fuori concorso La valle dei sorrisi, horror che occhieggia a Stephen King, con un convincente Michele Riondino. E Andrea Di Stefano, uno dei nostri migliori registi di noir e azione (L’ultima notte di Amore), con Il Maestro, sempre fuori concorso, ha riportato in auge un tocco di Commedia all’Italiana, con un sempre grande Pierfrancesco Favino. E poi c’è il vero Maestro, Marco Bellocchio, quello per cui ormai cinema e serie tv non hanno distinzioni. A Venezia ha portato i primi episodi della sua nuove serie tv (che andrà su un nuovo player, HBO Max), Portobello, che racconta l’Odissea giudiziaria di Enzo Tortora. Bellocchio racconta alla perfezione l’Italia tra gli anni Settanta e gli Ottanta, la tivù nazionalpopolare, e ovviamente lo scandalo di Tortora, “morto di ingiustizia”. A impersonarlo un sempre grande Fabrizio Gifuni.
Di Maurizio Ermisino