Interviste

Valerio Piccolo, dalla canzone di Parthenope all’adattamento de La stanza accanto, una vita tra cinema, musica e parole

di Maurizio Ermisino

Da qualunque punto si voglia guardare questa stagione cinematografica, e musicale, Valerio Piccolo ne fa parte. Abbiamo tutti ancora in testa, e nel cuore, E si’ arrivata pure tu, la canzone originale del nuovo film di Paolo Sorrentino, Parthenope.  Ma in questi giorni abbiamo anche negli occhi e nell’anima il nuovo, intenso film di Pedro Almodovar, La stanza accanto, di cui Valerio Piccolo ha curato l’adattamento italiano. È proprio questo il momento giusto per parlare con Valerio, per capire lo straordinario successo di Parthenope, della sua canzone. E anche per capire come è entrata nel film. D’altra parte, è interessante conoscere Valerio Piccolo per capire cosa comporta il lavoro di adattamento di un film, che è molto complesso. E perché E si’ arrivata pure tu, la canzone prodotta da Pino Pecorelli (uscitoa in due versioni: piano e archi e chitarra) è presente nel nuovo album Senso, uscito da un mese. È l’inizio della collaborazione con Metatron Publishing, un incontro tra la passione per il cinema e quella per la musica. Valerio Piccolo è un cantautore e chitarrista nato a Caserta, attivo tra Roma e New York. Dal 2000 è stato il traduttore ufficiale della folksinger americana Suzanne Vega. Oltre alla sua carriera musicale, è anche noto come traduttore e adattatore per libri, teatro e cinema. Dal 2000 a oggi, Valerio Piccolo ha tradotto e adattato dialoghi per oltre 350 film, includendo opere di rinomati registi contemporanei come Steven Spielberg, David Lynch, Tim Burton, Ron Howard, Quentin Tarantino e molti altri. Ha vinto il Gran Premio Internazionale del Doppiaggio nel 2017 e nel 2024 per i suoi adattamenti dei film Florence di Stephen Frears e Wonka di Paul King. Ha anche ricevuto l’Anello d’Oro al festival Voci nell’Ombra di Savona nel 2018 e nel 2022 nella categoria Miglior Adattamento per i film The Post di Steven Spielberg ed Elvis di Baz Luhrmann.

Come è entrata la sua canzone nel film Parthenope di Paolo Sorrentino?

È stata una situazione particolare. L’ha sentita da me mentre la stavo ultimando. Era una canzone che dentro di me avevo sempre pensato che potesse far parte di quel film: era la mia prima canzone in napoletano e lui stava girando un film su Napoli. Mi ha detto che gli era piaciuta e me l’ha chiesta. Abbiamo fatto qualche scambio di idee sulla canzone. E ci ha costruito una scena in cui è difficile scindere la canzone dalle immagini.

Che emozione è stata ascoltare la propria canzone in un film così importante?

È un’emozione diversa dal solito per la grandezza del regista. E per il fatto di essere un cinefilo, e una persona che per metà della vita lavora con il cinema. Ho amato Sorrentino dal primo film: mi sembrava di entrare in qualcosa di molto conosciuto, ma al tempo stesso guardando al film mi rendevo conto dell’importanza della cosa. La visibilità che questo film ti dà in tutto il mondo è unica.

Un’occasione per stare al fianco di grandi talenti come Cocciante

La canzone di Riccardo Cocciante è meravigliosa. Paolo Sorrentino ha un tocco unico sulle canzoni di repertorio. L’altra bellezza di stare in un film così è finisci in un film in cui il regista ha una consapevolezza e una conoscenza musicale estrema. In un suo film c’è David Byrne. E nella serie The New Pope c’era una canzone di Nada che risalì le classifiche. E qui, oltre a Cocciante, ci sono Frank Sinatra, Gino Paoli, Enzo Avitabile. Sono cose che in Italia può fare solo Sorrentino: ha una libertà che ha sempre avuto, non solo dopo l’Oscar. E interagire con lui è il massimo per un’artista.

Qual è il suo segreto del successo di Sorrentino?

È stata fatta una grande operazione di comunicazione e sono riusciti a raggiungere un target che spesso viene sottovalutato. Il punto è che Sorrentino tocca dei temi con grande sensibilità, la giovinezza perduta o finita, che toccano molto i ragazzi di oggi, per la loro fragilità e confusione nello stare al mondo. Credo che i giovani vengano toccati più degli adulti. E che questo sia stato capito dal regista e dalla produzione.

Da dove è nato il suo amore per la musica?

Ho sempre suonato, ma a un certo punto ho deciso di uscire allo scoperto e raccontare alcune cose. Ci sono due persone che mi hanno accompagnato in questo viaggio: musicalmente è stato Fausto Mesolella, il chitarrista degli Avion Travel, a cui dedico un pezzo in questo album. E, per quanto riguarda la scrittura, è stata Suzanne Vega. Quando ho cominciato a frequentarla dopo aver tradotto il suo libro, che abbiamo portato in giro per l’Italia in un concerto / reading, conoscere le sue parole e il suo approccio alla scrittura ha acceso qualcosa in me.

Come è avvenuto l’incontro con Suzanne Vega?

Ero un traduttore letterario. Minimum Fax aveva comprato il suo libro di poesie e racconti e, sapendo che ero un fan, mi hanno affidato la traduzione. Intorno al 2000 l’ho incontrata, ed è nata un’amicizia. È stata una persona importante per la mia vita.

Oltre a quella di musicista, ha una carriera di traduttore, per i libri e per il cinema

Ho sempre tradotto, traducevo libri. A un certo punto sono arrivato alla traduzione per il cinema un po’ casualmente, quando mi sono trasferito a Roma. Ho cominciato ad adattare i film per il doppiaggio. E quello è diventata la metà della mia vita. In vent’anni ho adattato più di 350 film; è un lavoro che vive parallelamente alla musica, non solo perché ho diviso in due la mia vita, ma anche perché hanno tratti molto simili. Sono entrambe operazioni creative che hanno a che fare con la manipolazione della parola, con il ritmo e con una musicalità che è molto importante. Faccio anche formazione e una delle cose che vedo nei miei allievi è che quando manca la musicalità il lavoro diventa difficile.

Come si lavora, a livello pratico, all’adattamento di un film?

L’adattamento, come la traduzione, è un lavoro delicato: siamo il tramite tra l’opera e lo spettatore, o lettore, italiano. Non c’è un metodo codificato è un lavoro artigianale in cui ogni adattatore tira fuori il suo. C’è chi prima fa la traduzione, chi adatta senza sapere l’inglese e si fa tradurre da un altro il testo. Non c’è solo l’inglese: adattiamo anche dal coreano, dal giapponese e da lingue in cui serve una traduzione. Quando insegno, trasmetto il mio metodo ma non c’è un manuale dell’adattatore.

Cosa pensa della querelle tra chi vorrebbe solo film in lingua originale?

La battaglia c’è sempre stata e torna sempre. Adesso di più, perché la gente è abituata a vedere sulle piattaforme i prodotti in lingua originale. Parliamo comunque di due mediazioni: non è che il sottotitolo non fa perdere nulla del film. Penso che si siano casi in cui il doppiaggio è meglio, altri in cui è meglio la versione originale con i sottotitoli. Pasolini era favorevole al doppiaggio, perché lo spettatore si distraeva coi sottotitoli e non prestava attenzione ad altri aspetti. Ci sono film dove è complicato sottotitolare: film in cui parlando continuamente più persone qualcosa dei dialoghi, si perde. In un film giapponese, in cui parlano in cinque, e le righe dei sottotitoli sono due, ci perderemmo questa cosa. Ci sono altri film in cui il doppiaggio non andrebbe fatto, perché le lingue hanno ritmi diversi.

Come si adattano i dialoghi di film di David Lynch, Tim Burton o Quentin Tarantino?

Nel momento in cui c’è la conoscenza della lingua d’origine non è richiesta la conoscenza dell’autore. L’adattatore e il traduttore devono essere ombre invisibili, figure al servizio del regista. Quando c’è una conoscenza profonda della lingua penso che il lavoro sia sempre semplice.

Ha adattato La stanza accanto di Pedro Almodóvar. Che esperienza è stata?

Ai film di Almodóvar ho lavorato spesso, ho adattato gli ultimi 4, ed è sempre interessante. Ha un braccio destro a cui posso fare riferimento ed è molto stimolante. Da un punto di vista tecnico non è un film complicato, ha una recitazione lineare. Mi è piaciuto molto, e mi è piaciuto questo cambio improvviso di panorama. Anche se ritrovo molto Almodóvar in questo film. È un’esperienza molto intensa, le parole sono diradate, e c’è stata un’attenzione a una fedeltà alla parola originale. Avevo anche una sceneggiatura in spagnolo e ho potuto fare un confronto tra le due.

È uscito il suo album, Senso. Che cosa troviamo nel disco?

È il mio disco più intimo in cui il pezzo del film di Sorrentino ha dettato la strada della scrittura. È stato il primo che è nato ed è stato questo a indicare quello che dovevo raccontare. È un disco che parla di me, temi che mi attraversano di più: un tempo che corre troppo veloce e che cerco di raccontare. È un film che parla di distanze e riavvicinamenti. È un disco di bilancio, un cerchio che si chiude per ripartire. È un viaggio verso l’interno di me.