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Very demure, very mindful: è possibile tutelare l’estetica di un contenuto social?

Ci sono video che diventano virali, e altri che non decollano. Gli elementi che possono influire sono diversi ma, quando di parla del successo dei content creator professionali, la risposta spesso è una sola: la consistency nel format che si propone
Miriam Loro Piana
Miriam Loro Piana

Che fa “sentire a casa” l’utente e che di conseguenza, in qualche modo assuefatto da quella certezza, quella tranquillità, quella “familiarità” tornerà sul profilo dell’influencer per percepire, in un mondo di mindless scrolling, un qualche senso di appartenenza.

Il caso Alyssa Sheil

È per questo che video sempre uguali, ma sempre diversi, hanno successo. Per fare un esempio, basta analizzare il profilo di Nara Smith, ex modella oggi devota madre di famiglia (o trophy wife, se siete degli haters) che in outifit di haute couture decisamente inadatti per stare vicino a dei fornelli e con una voce narrante bisbigliante ai limiti dell’ASMR, si cimenta in ricette sempre più strane e improbabili, come realizzare da zero (per soddisfare le “voglie” e le necessità di marito e figli), gomme da masticare, Coca Cola, l’equivalente casalingo dei Froot Loops e… del dentifricio. È in questo scenario mediatico che si inserisce una diatriba legale, iniziata nel dicembre 2024, tra Alyssa Sheil, #influencer da più di 500.000 followers tra TikTok e Instagram che nei suoi video scarta e recensisce prodotti Amazon e Sydney Nicole Gifford (600.0000 followers su TikTok e altri 300.000 su Instagram), che ha citato la prima davanti alla Western District Court of Texas, accusandola di copiare la sua formula “unica” (in altre parole, il concept) ideata e adottata da Gifford nei suoi video. Sheil, infatti, pubblicherebbe sui suoi canali dei video che hanno oggetto, angolatura di ripresa e perfino modo di parlare sovrapponibili a quelli di Gifford, circostanza che avrebbe fatto sensibilmente ridurre i guadagni di quest’ultima.

Si può tutelare l’estetica dei contenuti social?

La domanda che si pone Vogue.com e che appare correttamente essere il nocciolo della questione è: “Can You Ever Really Own an Aesthetic?”. Perché, di fatto, è su questo che si fonda l’intera vicenda giudiziaria. Pare, infatti, che entrambe siano #queen della c.d. “clean-girl aesthetic”: ambiente casalingo minimal, dalle tonalità del bianco, nero e beige, che fanno da cornice a video incentrati sull’antica arte dell’unboxing di prodotti Amazon – ovviamente, anch’essi in linea con l’“estetica” delle due influencer, appunto. Circostanza che ha fatto sì che la controversia fosse ribattezzata “the sad-beige lawsuit”. Un tratto, quello del loro essere “beige” che pare entrambe rivendichino con orgoglio, in quanto veicolo di vibes rilassanti, associate pertanto al mood dei loro profili.

Le ragioni del dissing

A rendere più interessante questo #dissing che, al contrario del solito, non si è limitato a un botta e risposta mediatico sui social, è il fatto che l’asserito tentativo di copy cat di Sheil nei confronti di Gifford si sarebbe verificato solo dopo che le due avevano discusso, nel 2022, di poter avviare una collaborazione. Tentativo che sarebbe finito male, appunto, con Sheil che blocca a Gifford la possibilità di vedere i suoi post. Stando a People.com, le accuse mosse da Gifford sarebbero otto, tra cui violazione del copyright, violazione del Digital Millennium Copyright Act e violazione della sua immagine commerciale. È ragionevole ritenere che l’azione di Gifford troverebbe maggiore fondamento qualora ad essere imitata non fosse solo, in maniera generica, l’estetica dei contenuti realizzati, ma anche il tempismo con cui questi vengono pubblicati sui rispettivi profili.

L’ago della bilancia

In altre parole, da una parte andrebbe indagato se il “neutral, beige, and cream aesthetic” di Gifford sia effettivamente “unico” e, in quanto tale, possa essere di per sé tutelato dal punto di vista del diritto d’autore e, quindi, i video di Sheil siano un plagio di quelli di Gifford. In questo caso, Gifford dovrebbe sforzarsi di definire il più possibile in che cosa consista il “suo” format/concept, su cui si basano i suoi contenuti e che li caratterizzano in maniera così originale e creativa. Dall’altra, indipendentemente dall’accesso a questo tipo di tutela, andrebbe compreso se la riproposizione pedissequa dei contenuti della prima content creator sul profilo della seconda (in termini non solo di estetica, ma anche di oggetto/soggetto dei video) possa costituire un tentativo di inserirsi nel solco della sua attività e quali conseguenze negative ne derivino.

Il tutto riportato al panorama italiano

Tralasciando per un momento lo “stigma” per cui il lavoro di content creator non ha, ancora oggi, un riconoscimento sociale e professionale ben definito, se dovessimo riportare la controversia incardinata negli Stati Uniti al panorama italiano, quello di cui staremmo parlando sarebbe con ogni probabilità una causa basata su una contestazione di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 1, c.c. ovvero per imitazione servile dei contenuti postati sui profili social delle due contendenti (che altro non sono che il “prodotto” dell’attività delle influencer), potenzialmente idonea a creare confusione tra i post/video realizzati dall’una e dall’altra.

Un giudizio one of a kind

Ad oggi è noto soltanto che l’azione giudiziaria avrebbe superato il vaglio dell’ammissibilità preliminare e, quindi, il procedimento dovrebbe essere effettivamente trattato dalla corte adita in un prossimo futuro. L’unico punto su cui si può concordare, ad oggi, è che questo giudizio sia one of a kind e che non trovi precedenti attraverso cui provare a prevedere il suo eventuale esito.

di Miriam Loro Piana, Senior Associate Team IP, Media Tech & Data@ LCA Studio Legale (miriam.loropiana@lcalex.it)