Orgoglioso di inaugurare questa collaborazione tra Marketing con Vista e Youmark, vorrei iniziare ponendo una domanda a tutti voi lettori: quando una persona diventa icona e un’icona diventa brand, chi sta raccontando chi?
È una domanda che mi accompagna da tempo, e che mi sembra oggi più attuale che mai. Perché dietro ogni volto che il marketing sceglie di elevare a simbolo, c’è un confine sottile tra la verità e la rappresentazione, tra l’essere e il diventare. Esistono persone. Poi ci sono i personaggi. E infine, le icone. Le persone vivono, i personaggi recitano, le icone restano. È un’evoluzione crudele, quasi una mutazione genetica dell’identità: la vita si fa immagine, l’immagine diventa merce e la merce — se si è fortunati — diventa leggenda. La pubblicità, che da sempre vive di simboli, su queste mutazioni costruisce imperi.
Il marketing non può creare icone, le addomestica
Un’icona è una biografia distillata, un logo umano. Non ha bisogno di spiegarsi: basta uno sguardo e capisci tutto. È la sigaretta accesa di James Dean, la smorfia di Marilyn, il cappello calato di Clint Eastwood. È ciò che resta quando la complessità di una vita viene compressa in un gesto, in un profilo, in una sensazione. Philip Kotler forse direbbe che è “posizionamento percettivo”. Roland Barthes l’avrebbe chiamata “mitologia del quotidiano”. Io, più semplicemente, penso sia un trucco ben riuscito: prendere una vita piena di contraddizioni e venderla come un’idea chiara, pulita, pronta per la vetrina. Il marketing non inventa le icone: le addomestica. Toglie il rumore, lascia la melodia. Grant McCracken, nella sua Meaning Transfer Theory (1989), spiega che il valore simbolico di una persona può spostarsi su un prodotto attraverso un semplice atto di associazione. È un contagio culturale: l’aura di qualcuno che si attacca a qualcos’altro. Quando funziona, un orologio diventa coraggio, un paio di occhiali diventa libertà, una macchina diventa sogno. Quando non funziona, resta solo il rumore del tentativo.
Se cade l’icona, cade il brand?
Le icone sono le vene attraverso cui scorre il sangue del desiderio collettivo. Ma il sangue, come sappiamo, coagula. Il mito non è stabile: è un equilibrio fragile tra luce e ombra. Le campagne con testimonial coerenti generano in media un aumento del 4-6% nelle vendite trimestrali (Nielsen, 2023), ma il vero ritorno non è nei numeri, è nella memoria. Perché un’icona non serve tanto a vendere di più, quanto a farsi ricordare più a lungo. David Aaker, in Managing Brand Equity, scrive che il valore di un brand non sta nel prodotto ma nella somma dei significati che le persone vi proiettano sopra. Ecco, le icone sono amplificatori di senso: accorciano i tempi, legittimano i valori, danno emozione al razionale. Ma ogni shortcut ha un prezzo. Quando un’icona cade, si porta giù anche il brand che le stava aggrappato. È successo con Tiger Woods, con Lance Armstrong, con centinaia di volti idolatrati e poi rimossi dal piano media in ventiquattr’ore. La differenza tra mito e scandalo, oggi, è un tweet. Eppure le marche continuano a inseguire le icone come falene sulla luce. Perché resta l’unico modo per costruire identità senza passare dalla noia della coerenza. Una marca può passare vent’anni a costruire senso o prenderselo in prestito da un volto. È più rischioso, ma infinitamente più veloce. L’unico trucco è scegliere il volto giusto. Non quello famoso, quello vero.
La perfezione non genera desiderio. Steve McQueen
Un’icona non è mai perfetta. È incrinata. Perché la perfezione non genera desiderio, genera distanza. Il desiderio nasce dalle crepe, dal dubbio, dal rischio. Ecco perché le icone non muoiono mai, perché ci somigliano. Ed è da qui che sono partito per provare a dare una risposta a quella domanda. L’ho fatto studiando una delle mie poche, ma grandi icone: Steve McQueen. Un uomo che non parlava, e per questo disse tutto. L’attore che non recitava, ma viveva. Avete notato che, anche a quarantacinque anni dalla sua scomparsa, il suo volto continua a funzionare per i brand meglio di molte strategie contemporanee?
In questo articolo, tuti gli approfondimenti. Buona lettura, Davide Schioppa, founder del Think Tank ‘Marketing con vista’.