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Social History, la serie RaiPlay che racconta i content creator, star della pubblicità

Qui era tutta campagna. Si dice questo quando si parla di centri abitati cresciuti in fretta dove prima non c’era niente. Ed è quello che è accaduto nel mondo di internet e dei social media. Tutto questo viene raccontato in Social History, la docu-serie in esclusiva su RaiPlay – prodotta da Bug Srl in collaborazione con Rai Documentari – che esplora l’evoluzione dei content creator in Italia, dalla nascita della viralità ai social media di oggi. Per raccontare l’esplosione del fenomeno dei content creator, degli influencer e dell’esplosione di YouTube come nuova tv si parte proprio dal momento in cui non c’era ancora nulla. Mentre in un riquadro vediamo il primo video caricato su YouTube, Me at the zoo, pubblicato da Jawed Karim nel 2005, ci viene spiegato come prima “qui era tutta campagna”: non c’erano internet, i social, YouTube. E così i primi creator sono stati dei pionieri, anche perché in quel nuovo mondo non c’erano regole. Era un Far West. “Quando abbiamo iniziato su internet a fare un percorso da creator non sapevamo dove stavamo andando: nessuno ci ha assicurato che sarebbe stata una fonte di guadagno e che sarebbe diventato un lavoro” spiega Mauri Valente, autore del soggetto e della sceneggiatura di serie. “Abbiamo vissuto questo mondo nella sua totale evoluzione. Il documentario nasce per questo, per essere una lente di ingrandimento su un percorso che non è stato letto in maniera completa. Se pensiamo a un internet prima del lockdown e e un internet post lockdown la concezione è completamente diversa, anche se gli elementi sono gli stessi. Far capire da dove si è partiti ci sembrava importante: anche dal lato associazione c’è l’obiettivo di colmare un gap culturale importante, far capire a tutti cosa è successo e dove si sta andando”.

Trovare un posto dove raccontare storie

Nella docu-serie appaiono molti creator ormai famosi, da Camihawke a Favij, da iPantellas a Willwoosh. È proprio lui a farci capire come e perché è nato tutto. “Volevo raccontare storie e non avevo un altro posto dove raccontarle”. “Involontariamente, quando abbiamo iniziato il nostro percorso, nessuno ha mai dato peso al claim di YouTube broadcast yourself” commenta Valente. “Lo abbiamo fatto in maniera istintiva, per una necessità di comunicare. Io ho iniziato a creare su YouTube perché studiavo cinema e il cinema indipendente non mi ispirava. Mi sono detto: piuttosto sfrutto le mie skill su YouTube, mi esercito e conosco persone. La prima generazione è nata senza velleità”.

Social History, RAI Play

Brand e creator: non è stato subito facile

Quando, all’inizio della serie, si racconta l’era pre-internet, si fa notare anche che, prima, le aziende facevano pubblicità in tv. Una frase che oggi fa sorridere: l’adv televisivo c’è ancora, ma non è mai da solo. Le aziende hanno cominciato a investire su YouTube: ma per i creator non è stato facile, visto che sono stati spesso accusati dalle proprie community. “Quando è iniziata la monetizzazione e apparivano i primi spot di YouTube prima dei nostri video ti davano del venduto perché stavi guadagnando con dei contenuti” ci spiega l’autore. “La cosa si è poi aggravata. I brand ci hanno detto che eravamo una vetrina per un’utenza che loro non intercettavano con i media tradizionali e abbiamo iniziato a fare attività con le aziende, ma senza che la community capisse il perché. Per loro eri il ragazzo della porta accanto che aveva il coraggio di andare in video: c’era questa finta fiducia tradita: lo fai per passione e poi ci guadagni? Man mano è stato sdoganato il concetto che la passione è diventato un lavoro”.

Ogni creator è un editore

“Siamo i nuovi Mastrota?” si chiede uno dei creator, pensando al venditore televisivo per eccellenza. Non è proprio così. Ma il punto è che gli youtuber arrivano a tutte le persone – o comunque a target molto ampi e definiti – con costi molto più contenuti rispetto a un’adv tradizionale. “Una singola figura professionale come un creator va a incarnare tutte le figure” spiega Valente. “Quando fai uno spot tradizionale hai una troupe. YouTube ha visto l’avvento della gente che aveva l’arte dell’arrangiarsi, che ha usato la sua creatività per far vedere cosa aveva in testa: e si ritrovava a fare l’autore, il regista, il montatore.  Tutto questo significa arrivare sul mercato con un budget più contenuto”. La serie Social History ci fa capire che ogni creator è un editore, un piccolo canale tv con un proprio piano editoriale, anche se “il content creator sfugge alla figura dell’editore classico” come spiega l’autore. Ma la serie sfata il mito che gli influencer non facciano niente: lavorano tutto il giorno e, in fondo, non hanno weekend né ferie. L’algoritmo non si ferma e nemmeno loro possono farlo. Dietro un contenuto, anche breve, di sono ore e ore di lavoro.

Le monetizzazioni e i rapporti con i brand

Proprio le accuse rivolte ai creator dalle proprie community hanno fatto venire loro molti dubbi. “All’inizio eravamo molto più chiusi, c’era molta più selezione” spiega Valente. “Il giudizio delle persone, forse, all’inizio ci ha portato ad avere molto più tatto. Quando sono esploso su YouTube ho cercato un manager per gestire questi aspetti. Nei nostri percorsi ci sono sempre stati degli step. Prima di arrivare al 2025, quando i creator possono anche gestirsi in maniera autonoma perché c’è più consapevolezza da parte dei brand, dello strumento e dei creator stessi”.

La coerenza tra i brand e i propri contenuti

Una delle regole perché un creator sia credibile, è cercare una coerenza tra i brand promossi e i propri interessi, il proprio stile, gli argomenti dei contenuti. “Nel mio caso ho fatto sempre quello che risultava più idoneo per me e la mia community” spiega l’autore. “Nel 2016 facevo virali su Facebook in cui portavo le rose alle prostitute a San Valentino o la colazione ai senzatetto a Natale, e non andavo certo a sponsorizzare il gioco d’azzardo. Se mi fosse arrivato un brief su quell’argomento avrei trovato una tematica vicina al mio mondo per parlarne. Poi quando diventi un addetto ai lavori e collabori con altri creator ti poni sempre la domanda e hai a che fare con i Kpi di ritorno. Se non fai questa analisi a monte non è sempre detto che un argomento che non conosci o che non ti appartiene possa funzionare o diventare qualcosa di interessante”.

di Maurizio Ermisino