Entertainment

Sirât, danzare in trance alla fine del mondo. Uno dei grandi film dell’anno arriva al cinema dall’8 gennaio

Attraverso la storia di un padre alla ricerca della figlia scomparsa, il film esplora dolore, trance, perdita e desiderio di trascendenza. Tra musica techno, corpi in movimento e immagini ipnotiche, una riflessione sulle ferite individuali e collettive del presente

“È così che ci si sente alla fine del mondo?” “Non so come ci si sente. È da un po’ che è iniziata la fine del mondo”. È un dialogo che arriva, proprio mentre stiamo pensando proprio a questo, poco dopo la metà di Sirât, il film di Oliver Laxe che ha vinto il prestigioso Premio della Giuria a Cannes. In Italia arriva l’8 gennaio al cinema, distribuito da MUBI, e ve lo diciamo subito: è uno dei grandi film dell’anno, un’esperienza totale, fisica e interiore, che mette alla prova lo spettatore. Non è un caso che sia nella shortlist agli Academy Awards in cinque categorie tra cui Miglior Film Internazionale e candidato a quattro European Film Awards. “I film sono fatti innanzitutto di immagini. Io sono un cineasta prima di immagini e poi di intenzioni” ci ha spiegato il regista nella conferenza stampa di oggi a Roma. “Volevo che gli spettatori, e io stesso, morissimo vedendo il film. Parliamo di cerimonie di morte, in cui la morte diventa un portale verso l’eternità, verso la trascendenza. O verso il vivere con una maggiore consapevolezza della nostra vita”.

Tra paradiso e inferno

“C’è un ponte che si chiama Sirât e che divide paradiso e inferno. Chiunque lo attraversi è cosciente che è più sottile di un capello e più affilato di una spada”. È con queste parole, che arrivano dalle sacre scritture islamiche, che inizia il film di Oliver Laxe. Subito dopo vediamo dei grandi amplificatori venire montati con cura. Poi li vediamo nell’insieme, un muro del suono pronto ad esplodere. Ed ecco l’assalto sonoro: musica techno, musica da trance, bassi potenti che scuotono dentro. Una massa, un fiume di persone si muove all’unisono: li vediamo dall’alto, poi siamo in mezzo a loro. È un rito ancestrale, tribale, mistico. Quelle persone sono lì per divertirsi, per perdersi, per staccare con la realtà. C’è un uomo, Luis, che è lì con il figlio, Esteban, per un altro motivo: sta cercando la figlia di cui non ha notizie da cinque mesi, e che potrebbe essere lì. Non la trova, ma sente parlare di un altro rave. E così si mette in viaggio verso la Mauritania insieme ad altre persone.

Saltare nell’abisso

Inizia così un viaggio che sembra essere senza meta, un viaggio nel deserto, nel nulla, verso l’infinito. Un viaggio verso la fine del mondo. Noi viaggiamo insieme a Luis, che parla poco, è imperturbabile. Eppure possiamo capire che cosa abbia dentro. Disperazione, paura, ansia, dolore. Luis è un grande attore come Sergi Lopez. “È un film complicato e avevo bisogno di un attore professionista” dice a proposito il regista. “Sergi è un attore che è capace di costruire delle maschere, ma anche di destrutturarle, di toglierle, di ricominciare da zero. Doveva essere al livello dei partecipanti al rave che sono tutti non attori. È un attore molto emotivo e riesce a far sì che il pubblico si identifichi in lui”. “Non so cosa sono riuscito a fare” interviene Sergi Lopez. “Faccio quello che posso. Non sempre conosci le risposte. Non sempre hai le soluzioni. In questo film il mio sono stato costretto ad entrare in trance e a far sì che il mio corpo trovasse le risposte che io non avevo. Ho detto al regista: ‘non so se sono capace di fare questo personaggio’. ‘Devi saltare nell’abisso’ mi ha detto lui”.

Tutti noi siamo menomati

E il film segue il suo stato d’animo, e quello dei suoi compagni d’avventura, un gruppo di raver, di outsider, perché “la grazia è nei disgraziati, come diceva San Francesco” spiega il regista. Sono dei punk antisistema feriti nel corpo e forse nell’anima, menomati e fragili. “Tutti noi siamo menomati. Tutti noi siamo rotti” riflette l’autore.  E così prende vita un film devastante e disperato, sempre più doloroso man mano che la storia va avanti. Così tanto che a volte vorremmo distogliere lo sguardo, ma siamo catturati, ipnotizzati, immersi dentro la storia grazie a un’espressività potentissima.

Ballare con le lacrime agli occhi

Oliver Laxe è eccezionale in tutto. Nel tenere alta la tensione, nel creare un crescendo nel racconto (con grandi colpi di scena a metà e a tre quarti del film che non vanno rivelati), a creare un mondo unico sfruttando gli ambienti e anche l’umanità che riesce a tirare dentro al film, non attori presi dal popolo dei rave, per come riesce a rendere i personaggi credibili, straziati e strazianti. “Ho fatto un casting selvaggio” ci ha raccontato il regista. “Siamo andati nei rave tra Italia, Spagna e Portogallo”. “Recitare accanto ai non attori è stata un fonte di ispirazione” aggiunge Sergi Lopez. “Quello che desideriamo noi attori è che il pubblico non si accorga che stiamo recitando. Sappiamo che stiamo raccontando una storia, una bugia, qualcosa di inventato. Ma quando c’è questo rituale collettivo noi crediamo a loro. Lavorare con non attori mi ha avvicinato a raggiungere a questo obiettivo”. E così eccoli, i raver. Persone che ballano con le lacrime agli occhi, come diceva quella canzone, per dimenticare. Ballano per non pensare, ballano per annullarsi. Sirât è un’esperienza fisica, stancante, è un’esperienza mistica, estrema. È un continuo contatto con la morte. Quella di Oliver Laxe è una forma visiva potentissima, abbagliante, ipnotica. Il suo è un film a cui è impossibile sfuggire.

È un momento di dissolvenza tra passato e presente

È un’esperienza che è anche catartica, che ci fa fare i conti con noi stessi. “Tutti noi abbiamo lavorato al limite delle nostre forze fisiche e psicologiche” spiega il regista. “Ho girato questo film in un momento molto particolare, in cui ero molto collegato alle mie ferite. Il cinema può guarire l’immaginario collettivo. Queste sono immagini che restano nel cuore”. Mentre ai margini della storia, appare tutto un mondo che è quello a cui i nostri eroi cercano di sfuggire, da cui nascondersi, un mondo militarizzato, fatto di ordine e ordini, si va allora verso la fine del mondo, ammesso che la fine del mondo non sia già qui. “Come cineasta quello che cerco sempre è connettermi con il presente, con le paure e i sogni del nostro tempo” commenta Laxe. “Vedremo se tra 20 anni Sirât li avrà davvero raccontati. Siamo in un momento di cambiamento, di passaggio tra due ere. Non puoi salutare di colpo il passato, è una dissolvenza incrociata. A volte il passato torna nel presente, ma è qualcosa di temporaneo, a volte emergere il passato è qualcosa di necessario per far entrare il presente”. Si va verso la salvezza, forse, ma questo non possiamo mai saperlo. Dove ci portano quei binari? I nostri non lo sanno. Ma chi di noi può davvero saperlo?

di Maurizio Ermisino