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Al cinema ‘Muori di lei’. Sardo: senza sceneggiatori piloti niente ‘Dieci capodanni’

In occasione dell’uscita, oggi 20 marzo, del film, abbiamo incontrato Stefano Sardo. La golden age delle produzioni è già finita, ma i tempi lunghi di realizzazione delle serie lo faranno capire tra un anno. In Italia gli sceneggiatori non sono al comando. Non dobbiamo prodotti di pura scrittura

“La vita è quello che ti accade mentre sei occupato in altri piani” scriveva John Lennon. Ed è quello che accade a Luca Messico, un inedito Riccardo Scamarcio, in Muori di lei, il nuovo film scritto e diretto da Stefano Sardo, uno dei migliori sceneggiatori italiani, al cinema dal 20 marzo. Durante il lockdown del marzo 2020, Luca e la compagna, Sara (Maria Chiara Giannetta) stanno per avere un figlio con la fecondazione assistita. Ma, nell’appartamento in affitto accanto al loro arriva Amanda (Mariela Garriga), intrigante ragazza cubana che si chiama come la protagonista de Le mille luci di New York e che fa perdere la testa a Luca. Che ci racconta la sua storia con la voce off tipica dei film noir. Perché Muori di lei è questo: un noir, un tipo di film che in Italia si fa poco, ma è intriso di un’ironia caustica e beffarda. D’altra parte, come sentiamo dire nel film, “la vita è una tragedia vista in primo piano, ma è una commedia vista in campo largo”.

Muori di lei è un film mai visto nel panorama italiano. Un film in cui si respira desiderio e tentazione, ma in cui si sorride anche a denti stretti delle nostre debolezze, soprattutto di quelle di noi uomini, inadeguati nei rapporti con le donne, impreparati davanti a un avvenimento, come la pandemia, che ci ha visti spettatori inermi. Il protagonista del film è un uomo piccolo, meschino, come i protagonisti di una certa Commedia all’Italiana di altri tempi. Muori di lei non è un film sul Covid, ma nel Covid, che utilizza tutti gli ostacoli e i paletti posti da quella situazione per creare narrazione e suspense. Nel nome di Hitchcock e de La finestra sul cortile, Stefano Sardo gira un film a suo modo personale, ma anche universale, che fluttua tra i generi per raccontarci qualcosa di profondo su noi stessi. Sardo, prima con il film La doppia ora, poi con la famosa serie 1992/1993/1994, ha provato spesso a cambiare le regole del gioco in Italia. Abbiamo colto l’occasione per parlare anche di questo.

Il titolo riprende una canzone dei Verdena, in scena c’è un poster dei Mambassa, che è stata la sua band. Vuol dire che è un film molto personale?

Scrivendo devi sospendere il giudizio tra giusto e sbagliato, lasciare che le contraddizioni vengano a galla e poi gestirle. Volevo che il meccanismo, molto spericolato, venisse percepito nel modo più naturale possibile e ho cercato che tutto fosse molto verosimile soprattutto per me. E ho voluto radicarlo a un’identità sociale e culturale che conosco, a cose che fanno parte della mia vita. Quel rock l’ho vissuto, lo conosco. Mi sembra un territorio musicale poco battuto dal nostro cinema, e mi piaceva usarlo in una chiave più pop, con lui che passa l’aspirapolvere ascoltando i CCCP. Mi faceva ridere usare quell’immaginario, molto connotante, come l’arredo credibile di una persona che non sono io, ma che potrei conoscere bene.

Il film inizia con Pornhub. Il cinema non deve farsi pudori su cosa raccontare, ma osare nel dire quello che a parole non confessiamo?

Nel momento in cui sono io che racconto una storia, quello che posso avere da dire non sono le cose edificanti: queste sono simili per tutti. Quelle imbarazzanti sono molto più specifiche. E rappresentano il Dna di un autore. Neil Gaiman dice che gli scrittori sono persone che corrono nude in mezzo a una folla. Penso che sia vero. E che la metafora di Pornhub voglia dire questo: abbiamo assegnato la missione di portabandiera di uno zeitgeist a una narrazione edulcorata e spaventata, ma c’è un’altra narrazione, viscerale e scorretta, che fa numeri decine di volte più importanti, a cui abbiamo appaltato la libido, che è relegata al sottobosco del porno. E affiora invece una versione edulcorata, che non intercetta le pulsioni, un magma che scorre dentro ognuno di noi. Volevo raccontare il suo affiorare in una vita normale, borghese, come quella di Luca e Sara.

Durante il Covid insieme ad altri sceneggiatori si era interrogato sul senso di raccontare ancora le storie e se la pandemia andasse raccontata. Questo non è un film sul Covid, ma nel Covid…

Avevo immaginato un embrione di questa storia prima del Covid: doveva essere ambientata in un ferragosto romano, tipo Il sorpasso. Quando è esplosa la pandemia, avevo tentato con un gruppo di amici sceneggiatori di scrivere una collezione di episodi ambientati durante il lockdown. Nessuno si è acceso all’idea di produrre quella serie antologica. Ma quel soggetto, che ambientava la storia di prima nel lockdown, me lo sono portato dietro quando quel periodo è cominciato a diventare il passato. Ho girato il mio film Una relazione, nel 2021. Ma sentivo che il lockdown era l’ambientazione giusta: offriva un’occasione di astrazione delle dinamiche emotive.

Lei continua a scrivere e girare film e serie che non si fanno in Italia: dal thriller La doppia ora, alla famosa serie 1992/1993/1994, alla fantascienza di Ipersonnia. Questo è un noir, ed è filtrato con ironia. È un modo per affrontarlo a modo nostro?

La doppia ora era un high concept shyamalaniano, era il mio primo film, scritto a sei mani, un incrocio di gusti differenti. Qui ci sono più io, anche se Giacomo Bendotti è stato un grande compagno di scrittura. Io ho il gusto, da spettatore, di cercare zone meno battute. Mi piacciono i racconti forti, che sorprendono e spiazzano, ma mi piace declinarli nel nostro mondo, non fare la traduzione di un noir americano e chiamare con nomi italiani. Ho pensato: che cosa sarebbe successo a me se nel lockdown mi fossi invaghito di qualcuno? Anche se Luca Messico non sono io. Mi piace pensare di fare le cose in un modo che non sia come se l’AI traducesse in italiano quello che si fa con più soldi altrove, ma giustificare il fatto che lo facciamo noi, e quindi raccontare com’è da noi. I poliziotti sono diversi, l’efficienza è diversa, le persone sono un po’ ciniche e disincantate.

Luca Messico è un personaggio un po’ meschino, codardo, che richiama certi uomini piccoli della Commedia all’Italiano di una volta…

Tutto quello che succede nella mia vita non è mai epico, è sempre un po’ un dramedy. Anche i dolori, le separazioni, i lutti: si cerca di vivere tutto, soprattutto tra maschi, con un misto di ironia e cinismo. Questo tipo di attitudine mi sembrava una chiave interessante per un antieroe contemporaneo. In fondo non è vigliacco al punto di lasciar accadere qualcosa senza intervenire.  È che è semplicemente inadeguato quando deve entrare in azione. Perché in azione noi non ci siamo entrati mai: la mia generazione non ha partecipato a nessuna protesta, forse Genova del 2001. Ma a parte quello e la pandemia non abbiamo ami vissuto niente di epocale, e quindi non siamo attrezzati per l’epica.

Nel film si racconta una fragilità maschile e una crisi nei rapporti con le donne, che, raccontata in altro modo, è presente anche in Una relazione…

Questo film cerca proprio di affrontare lo iato tra i retaggi ancestrali dell’immaginario maschile e una società in cui maschile è una parolaccia, è squalificante. Di fatto noi maschi non abbiamo più una causa a cui aderire. Abbiamo un’educazione, dei comportamenti ancestrali e non sappiamo più cosa farcene. Ogni codice comportamentale su cui ci eravamo formati come bambini è totalmente inadeguato al presente che stiamo vivendo. Mi sembrava interessante che come substrato inconscio del film ci fosse una riflessione: noi cosa facciamo di quello che abbiamo imparato ad essere? Mi piaceva che in modo ironico, da chiacchiere da bar, i maschi si interrogassero. L’unico maschio alfa del film è quello della generazione precedente, Paolo Pierobon, una specie di Zampetti 2.0.

È tra gli sceneggiatori de L’arte della gioia. Come si lavora sull’adattamento di un’opera letteraria, e in una serie in cui si scrive a più mani?

C’erano già quattro sceneggiatori al lavoro quando sono entrato. Quando lavori su un progetto a più mani cerchi di capire qual è la direzione comune e di remare in quella. C’era già un lavoro di due anni, di Valeria Golino, Valia Santella e Francesca Marciano, a cui si era aggiunto Luca Infascelli. Mi hanno chiesto se potevo lavorare sulla strutturazione seriale del materiale, che era già molto buona: ho lavorato sulla forma dei soggetti degli episodi e mi sono riservato di scrivere un episodio, il 4, su sei. È stata una grande fortuna fare questo progetto. Valeria Golino, tra i registi che conosco, è una delle persone con la visione più chiara di quello che vuole.

Anche in questa serie c’è una pandemia, la Spagnola, che richiama il Covid…

È nel romanzo. Quando è stata scritta la serie si riverberava sul presente in maniera sinistra, è una cosa che ha finito per assumere quelle sembianze lì molto facilmente.

Ora che è sia sceneggiatore che regista, come sceglie quando dirigere in prima persona le storie e quando affidarla ad altri?

Ci sono progetti che sono nati così: per i due film che ho fatto non c’è stato mai un altro regista. Adesso che ne ho fatti due, ogni tanto mi chiedo, quando ho un’idea, cosa devo farne: sono più ingolosito dall’idea di dirigere, e anche di dirigere qualcosa che non sia così intrisa da elementi miei, come un biopic.

Il livello della serialità in Italia è molto alto, l’asticella continua ad alzarsi. Siamo a livelli internazionali o manca qualcosa?

Quello che stiamo vedendo di buono è figlio di un’epoca che nel frattempo è tramontata. Serie produttivamente impegnative come M – Il figlio del secolo, L’arte della gioia, Il Gattopardo, sono figlie di quel momento boom in cui tax credit e altre circostanze hanno fatto sì che ci fosse la piena occupazione, con budget molto più alti di quelli a cui siamo abituati. La sensazione è che a livello internazionale, e anche a livello italiano, legislativo, ci sia stata una contrazione molto forte. Si tratta di sbarcare il lunario e c’è molta gente che non lavora. È cambiato drasticamente lo scenario. La Golden Age ha già frenato: i tempi di realizzazione delle serie sono così lunghi per cui la frenata di quest’anno la vedremo tra un anno. Netflix ha una solidità economica che è l’unica che non subisce contraccolpi. Altre hanno chiuso, hanno ridimensionato o cambiato linea editoriale, o hanno subito i tagli della politica. L’età dell’oro, intesa come valori produttivi, per me è sicuramente tramontata.

C’è però una generazione di scrittori che ha capito che ci può essere qualità, che non siamo più alle fiction di vent’anni fa…

Gomorra ha cambiato il gioco, è stata una ventata di novità. Era il 2014. La nostra esperienza di 1992 è stata particolare: una serie senza un genere preciso, un political drama intriso dalla fascinazione di un racconto seriale alla Mad Men. È stata un unicum. Ma, per il coinvolgimento che noi sceneggiatori abbiamo avuto a livello di coordinatori artistici di un progetto, credevamo di essere piloti di una rivoluzione che non c’è stata. Ci sono stati tanti prodotti buoni, alcuni buonissimi. Credo che sia mancato e manchi quella forma di racconto personale tipica del dramedy, di 30 minuti, proprio perché non affidiamo agli sceneggiatori il racconto, non troviamo voci che possano diventare narratori di prodotti meno high concept ma che potrebbero raccontare il presente attraverso uno sguardo partecipe e personale. Un caso a parte è Storia della mia famiglia, per l’ostinazione che ci ha messo Filippo Gravino nel fare una cosa sua. Ma non abbiamo prodotti di pura scrittura, di piacere di sguardo: non abbiamo i Fleabag, i Ted Lasso, Dieci capodanni. Adesso tutti dicono: facciamo Dieci capodanni. Ma il punto non è copiarlo, quanto prendere spunto per capire cosa possiamo fare noi.

di Maurizio Ermisino