Guardate la prima scena de La città proibita, il nuovo film di Gabriele Mainetti, al cinema dal 13 marzo, con alcune anteprime l’8. Mei, una ragazza esperta in arti marziali, lotta da sola contro decine di avversari in un ristorante. Siamo in un film di kung fu cinese: tutto, in ogni fotogramma, ci rimanda a un vero e proprio film di genere orientale. Ma usciti dalla porta di quel ristorante ci ritroviamo in una via di Roma, all’Esquilino, vicino a Piazza Vittorio. Gabriele Mainetti è proprio questo: è prendere il grande cinema e portarlo nei posti che conosce, con la parlata che conosce, tra le vite di chi conosce. È l’unico modo in cui può fare il suo cinema, dice lui, l’unico modo per riuscire ad emozionare. Gabriele Mainetti è uno che può girare un film di arti marziali in Italia ed essere assolutamente credibile. Ancora una volta riesce a fare, qui da noi, un film che un tempo non si sarebbe mai fatto: riesce a fare il cinema che ama, quello che andrebbe a vedere in sala. La città proibita è un film da vedere: come in ogni film di Gabriele Mainetti ci sono l’azione, la risata, ma c’è sempre anche il dramma. Qui, a un certo punto, siamo quasi dalle parti dell’Amleto di Shakespeare. E c’è un occhio alla realtà della Roma oggi, una città in cambiamento, anche se qualcuno non la vorrebbe così. È un film che conferma Gabriele Mainetti come un grande talento del nostro cinema.
Rendere credibile l’incredibile
Da Lo chiamavano Jeeg Robot a Freaks Out, fino a La città proibita, questo è Gabriele Mainetti: il regista italiano che più di ogni altro riesce a rendere credibile l’incredibile. Come ci riesce? Rendendo questo incredibile molto terreno, portandolo in basso, alla nostra altezza. Così, Lo chiamavano Jeeg Robot calava il cinema dei supereroi a Roma, a Tor Bella Monaca, in un ironico romanzo criminale italiano. Freaks Out era uno Spielberg contaminato con L’armata Brancaleone, un classico della Commedia all’Italiana. “Mi chiedono spesso: qual è la ricetta precisa con cui lavori?” commenta Mainetti. “Sono i personaggi. Mi piace pensare alle storie più assurde ma avere i personaggi più veri possibile, in modo che possano prendere per mano lo spettatore e portarlo a vivere esperienze nuove” I suoi personaggi non vengono mai giudicati, hanno una loro tridimensionalità che ti permette di riconoscerti in loro. “Anche se dovessero arrivare degli alieni, la loro reazione ti farebbe credere a quello che stai vedendo” aggiunge. “È una storia d’amore, una storia di personaggi tutti ammaccati” aggiunge Stefano Bises, autore della sceneggiatura con lo stesso Mainetti e Davide Serino. “Quelli che in assoluto piacciono di più e che Gabriele sa amministrare meglio: gli acciaccati. Tutti hanno un’umanità struggente. Anche i peggiori hanno una ferita”.
In Italia, oltre alle commedie, dobbiamo fare altro
Mei è una ragazza cresciuta nella Cina degli anni Settanta, quella del controllo demografico. Era la seconda figlia, quella che doveva rimanere nascosta. La sorella è sempre stata quella che usciva e le raccontava il mondo. Poi è andata a Roma. Mei, a Roma per cercarla, incontra Marcello, il giovane cuoco del ristorante Da Alfredo, suo padre. Siamo in un puro film di genere, anche se con dentro molta umanità. E una storia d’amore. “Nel nostro Paese, oltre alle meravigliose commedie che hanno una facilità di toccare lo spettatore, dobbiamo fare anche altro” riflette il regista. “Ed è il cinema che abbiamo conosciuto, come il cinema di Bruce Lee, i film che ci appartengono, che sono nel nostro immaginario. Volevo portare questa cosa per divertire. La storia d’amore, per raccontare un incontro culturale, era la cosa migliore”.
Roma ha l’occasione di cambiare
Ne La città proibita c’è la Cina del kung fu, ma c’è anche una magnifica Roma. Gabriele Mainetti, ancora una volta, riesce a rendere la Città eterna cinematografica, ma non nel modo in cui l’abbiamo sempre considerata tale. La rende un luogo nuovo, inedito, pur lasciando che sia se stessa. E giocando a sua volta con gli stereotipi di Roma al cinema, come il giro in vespa di Vacanze romane. È la Roma di oggi, però: quella multietnica, quella degli stranieri sfruttati, delle guerre tra poveri. “Roma è una protagonista dei film che faccio” spiega l’autore. “La Roma di Jeeg Robot era la periferia, la Roma di Freaks Out era quella del 1943, questa è l’Esquilino che si apre alla grande città. Qui non c’è quella Roma che travolge il racconto, c’è una Roma che ha una grande occasione di riabilitarsi e cambiare. Ho tentato di ripensarla e fotografarla in un modo diverso, quello di un cinema che non ci appartiene, per farci capire che possiamo essere in un modo diverso”. “L’accordo era quello di evitare di raccontare un tipo di Roma coatta, ma cercare di cogliere il senso che c’è dentro la città, che è cambiata, ma conserva la sua storia” aggiunge il sorprendente Enrico Borello, che interpreta Marcello, con un occhio a certi personaggi di Nino Manfredi o Alberto Sordi.
Chi rifiuta le contaminazioni è un dinosauro
Una Roma che ha l’occasione di cambiare è quella che può andare oltre quelle persone che dicono ancora “questa è casa nostra”, come Annibale, il personaggio di Marco Giallini, vecchio faccendiere che non ama chi viene da fuori e, se può, lo sfrutta. “Il personaggio l’ho costruito nel corso degli anni” spiega l’attore. “C’è molto di quello che ho visto, che ho sentito, che ho raccolto”. “Chi è contro le integrazioni, chi rifiuta le contaminazioni è un dinosauro” riflette Stefano Bises. “È questo che dice il film”. “C’è un profondo significato, l’arroccarsi e non aprirsi all’altro, in un prodotto di grande goduria cinematografica” aggiunge Davide Serino. Dentro una confezione pop c’è anche un film reale ed amaro.
Gabriele Mainetti è un po’ il nostro Quentin Tarantino
Come il grande del cinema americano, Mainetti prende da pezzi da altri immaginari e li riscrive in qualcosa di nuovo. Fonde alto e basso, cinema storico e cultura pop, scene madri e dialoghi reali. “Venero Quentin Tarantino” ci conferma. “È il motivo per cui faccio questo lavoro. Quando vidi Le iene impazzii, quando vidi Pulp Fiction non ci capii più nulla. Era Tarantino che guardava quel mondo e lo rendeva più umano. Rispetto a Tarantino non faccio citazioni, non giro le scene in modo identico. Ho solo visto il cinema che abbiamo visto tutti. Solo che, facendo il regista, poi questo cinema esce fuori”.
Yaxi Liu, da stunt a protagonista
È una cosa in puro stile Tarantino prendere attori molto noti come Marco Giallini, Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti (i due sono i genitori di Marcello) e usarli in modo nuovo, non scontato. Ed è molto da Tarantino prendere una stunt woman e renderla un’attrice vera, una protagonista. Tarantino lo aveva fatto in Grindhouse – A prova di morte con Zoë Bell, la controfigura di Uma Thurman in Kill Bill. Mainetti lo ha fatto con Yaxi Liu, che era stata la stunt della versione live action Mulan e qui è al suo esordio come attrice. “Con il mio personaggio ho trovato molte cose in comune: abbiamo iniziato da piccole a studiare arti marziali e abbiamo avuto un’infanzia turbolenta” ci racconta. “Ho lavorato per dieci anni nel mondo degli stunt, e sono queste le scene che mi vengono più facili, mi sento più a mio agio rispetto alla recitazione. In Cina queste scene erano più corte, più frammentate e poi montate. Gabriele voleva scene più lunghe, tagli più ampi. Bisognava ricordarsi la coreografia e non sbagliare. Il risultato è stato pazzesco”.
L’azione può essere racconto
La città proibita non è parodia, non è citazione. È un film di kung fu vero e proprio, che non ha niente da invidiare ai migliori film del genere. Mainetti è così: ama talmente certi film che o li fa ad alto livello o non li fa. L‘unico modo di fare questo film era trovare un’artista marziale vera e non l’attore che si allena per un anno per imparare a combattere. E l’unico modo era trovare uno stunt coordinator all’altezza: è Liang Yang, fight coordinator che ha lavorato a Skyfall e Deadpool & Wolverine. “Gli ho chiesto di custodire il cinema di kung fu, che si esprime al suo meglio con il grande Bruce Lee” spiega Mainetti. “Dare tempo allo spettatore di vedere e non perdersi in una scena d’azione velocissima in cui non si capisce niente. L’azione può essere racconto, come ci insegnano Buster Keaton, Charlie Chaplin, Griffith”.
Dalla piattaforma alla sala
La storia della produzione che inizialmente dove chiamarsi Kung fu all’amatriciana è appassionante quanto quella che vediamo sullo schermo. I progetti in ballo erano tanti ed è stato Marco Gianani di Wildside, che produce insieme Piperfilm e alla Goon Film di Mainetti, a tirare in ballo quell’idea del film di kung fu che Mainetti pensava di fare solo da produttore. Gianani gli ha proposto di dirigerlo. “Però lo faccio mio, e costa”. I produttori non hanno avuto problemi in questo. Piperfilm ci ha scommesso, con 400 sale in cui far uscire il film: sono numeri ambiziosi. “Ho percepito la potenza di questo tipo di offerta cinematografica, che in Italia è piuttosto rara se non assente” ha spiegato Massimiliano Orfei, Presidente e A.D. “Un prodotto come questo che va in sala con una dimensione produttiva importante è una notizia. Fino a qualche anno fa prodotti come questi andavano in piattaforma”. Come con il suo Jeeg Robot, Mainetti sta scardinando le abitudini consolidate del cinema italiano. Lo dice anche Sabrina Ferilli, che pensa anche a un sequel de La città proibita, “in cui, in tutina gialla, mi libro nello spazio e faccio mosse da kung fu. Con Mainetti si può”. Il senso della produzione è proprio questo: con Mainetti si può.
di Maurizio Ermisino