Il cinema iraniano sa spesso cogliere nel segno, con lucidità, il clima politico e sociale dell’Iran. Lo fa con storie semplici ma paradossali, sintomatiche e simboliche di quel mondo tetro e opprimente che è l’attuale dittatura di stampo religioso dell’Iran di oggi. Uno di questi è Jafar Panahi: Un semplice incidente, il film che ha vinto la Palma d’Oro al recente Festival di Cannes ed è stato designato dalla Francia alla corsa agli Oscar, arriva nei cinema italiani il 6 novembre con Lucky Red. Dopo aver visto Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof, ecco un altro film in grado di raccontarci l’Iran di oggi, premiato a Cannes prima di tutto per il suo messaggio politico.
Quell’inconfondibile cigolio
Un semplice incidente inizia in un modo che non può far certo presagire tutto quello che accadrà nel corso del film. Esterno, notte. Un’auto in viaggio, un padre, una madre e una bambina che balla al ritmo della musica. Ma succede qualcosa, un sobbalzo della macchina. Hanno investito un animale. Il viaggio riprende, ma c’è ancora un sussulto. La macchina, evidentemente, ha subito un guasto e i tre devono fermarsi in un’officina del posto per ripararla. È a questo punto che l’uomo vede un altro uomo con una protesi alla gamba. E crede di riconoscere in lui quello che era stato il suo aguzzino ai tempi in cui, insieme ad alcuni compagni, era stato rinchiuso in carcere per uno sciopero. Anche bendati, anche con la faccia contro il muro, quegli uomini e quelle donne, in carcere, sentivano l’inconfondibile cigolio di quella protesi. Ne sono sicuri, è lui. Anzi, non sono sicuri…
Il circolo vizioso della violenza si fermerà?
Un semplice incidente vive così, in uno stato di costante tensione. È l’Iran di oggi. Si respira un’aria di continuo sospetto, pericolo, paura. Quello che caratterizza quella che una volta era la Persia è un clima oppressione, vendetta, torti subiti e rivalsa. “La vendetta e il perdono non sono la parte più profonda di questo film” ha spiegato Jafar Panahi alla Festa del Cinema di Roma, dove ha presentato il film e ritirato il Premio alla Carriera. “Il mio obiettivo va oltre: quello che voglio trattare è nel futuro questo circolo vizioso di violenza che genera violenza si fermerà oppure no?” Il cinema iraniano non racconta direttamente il regime. Racconta i suoi effetti sulla gente, racconta le vite che sono costrette a cambiare per sempre. “Nelle forme di governo come il nostro la situazione è talmente difficile che i cittadini stessi hanno difficoltà a rapportarsi tra di loro” ha raccontato il regista. “Il credo religioso, poi, aumenta le tensioni. Oltre alla situazione economica e politica, che ha un’influenza importante. Nulla di tutto ciò è normale. E a volte le relazioni sono contraddittorie”.
Vedete questo film, e continuate a pensare
Così tra persone che potrebbero avere una vita nuova, si agita la diffidenza, il risentimento, ma anche il dubbio. Sì, Un semplice incidente è uno di quei film che ci mettono di fronte a noi stessi, ci fanno porre delle domande. Ammettiamo i torti di quell’aguzzino e condanniamoli. Ma si ha il diritto di farsi giustizia da soli? Il patto sociale che regola ogni Stato civile e democratico vuole che la giustizia sia demandata allo Stato. Ma che fare quando esso stesso non è democratico ed è il primo a perpetrare l’ingiustizia? E ancora. Se anche si fosse costretti a farsi giustizia da soli, è possibile “condannare” qualcuno con così pochi indizi, senza alcun contraddittorio, senza alcuna sentenza? Sono domande universali che non hanno risposta. E che fa capire come una società così malata faccia passare dalla parte del torto anche chi avrebbe ragione da vendere. Nel film di Jafar Panahi nessuno è dalla parte dei giusti perché in un mondo così nessuno può davvero esserlo in un mondo dove sai già in partenza che l’ingiustizia regna sovrana. “La mia intenzione è che quando uscite dal cinema continuiate a pensare a questo film, e pensare, e pensare”. E in questo senso Un semplice incidente riesce davvero nel suo intento.
Gli iraniani ridono delle tragedie
Quel “semplice incidente”, allora diventa solo il punto di partenza di un’Odissea tragicomica, con dei momenti di ironia beffarda che spezzano, ma solo in parte, la continua tensione del film. Guardate a quei vigilanti che, per chiedere il “pizzo” hanno con sé il POS. O i due fidanzati che partecipano a un sequestro di persona vestiti ancora con gli abiti da sposi che hanno usato per le prove. “L’ironia è una questione culturale” commenta il regista. “Gli iraniani hanno questo approccio ironico sulle situazioni difficili, ridono delle tragedie. A volte le situazioni lo richiedono. Ho visto il film in diversi Paesi del mondo: in alcuni fa ridere l’idea che i personaggi portino all’ospedale la famiglia dell’aguzzino. Nella nostra cultura invece è un fatto quasi scontato: un iraniano non riderebbe di una scena del genere. La verità è che volevo portare lo spettatore fino agli ultimi venti minuti in modo che il film fosse più sopportabile, non volevo un tono uniforme dall’inizio alla fine”.
Una donna senza velo ora si può mostrare
Anche Un semplice incidente, allora, è un titolo che suona beffardo e sinistro. Perché, in un mondo come quello dell’odierno Iran, niente di quello che accade è davvero “un semplice incidente”. Il film racconta in modo molto efficace il clima che si respira nel Paese. E, insieme alle storture del sistema, documenta anche i piccoli cambiamenti. È il primo film di Panahi in cui si vede una donna senza ḥijāb. “Dopo il movimento Donna, Vita, Libertà molte cose sono cambiate in Iran” rivela il regista. “Molte linee rosse sono state superate. Una situazione del genere influenza tutti gli aspetti della vita, e anche il cinema. Ovviamente prima di questo evento mostrare una donna senza velo nelle strade non sarebbe stata la realtà. Dopo il movimento si cominciano a vedere le donne senza velo. E se non lo mostrassimo sarebbe una finzione”.
La mia motivazione è sempre stata fare film
The Times They Are A-Changin’, allora, come direbbe Bob Dylan. “Oggi gli iraniani sono molto più vicini l’uno all’altro, come se il movimento Donna, Vita, Libertà, avesse fatto chiarezza nei sentimenti umani” rivela l’autore. “Ma il regime vuole creare distanza tra la popolazione. Conosco il contesto in cui vivo, la situazione del Paese, sono consapevole che questo mio modo di fare cinema comporti dei rischi. Quando vedo con quanti sacrifici il popolo iraniano stia cercando di risolvere i problemi quotidiani non credo che il mio sia un grande sacrificio. Anche in carcere c’erano tanti prigionieri in condizioni peggiori delle mie, erano lì anche da 2, 5, 10 anni e stavano sopportando l’insopportabile. A volte alcuni facevano scioperi della fame, anche per 20 giorni, ma nessuno veniva a sapere di questo. Se lo facevo io per 2 giorni il mondo veniva a saperlo”. È anche modesto, Panahi. Ma un artista che rischia la vita ogni volta che fa un film, a cui è vietato girare e ogni volta trova il modo di farlo è qualcuno da ammirare. “Io non so fare altro che il cinema” conclude. “Quando mi è stato detto che non potevo fare più film per vent’anni sono rimasto scioccato avrei voluto lasciare tutto. Ma ho cercato soluzioni perché volevo continuare con il cinema. La mia motivazione è sempre stata realizzare i film. E sarà sempre così”.
di Maurizio Ermisino
