Interviste

Maurizio Nichetti: la voglia di fare cose strane, tra cinema e pubblicità, perché entrambi forma d’arte

Con un po' di nostalgia per i tempi che furono, ci viene da aggiungere, commentando le risposte di Nichetti su come funzionava una volta la realizzazione di film per la pubblicità. La cdp andava dalle aziende, proponeva, e il set era fatto. Ma torniamo a lui, un pioniere

Lo abbiamo incontrato grazie alla  sua presenza quale ospite d’onore del Biografilm Festival di Bologna, dove ha ricevuto il Celebration Of Lives Award e ha presentato il documentario a lui dedicato, Nichetti Quantestorie di Stefano Oddi. Guardando il film è tutto ancora più chiaro. Maurizio Nichetti faceva pubblicità già nel 1971, insieme a Bruno Bozzetto, e spesso in film a tecnica mista, animazione e live action, quasi vent’anni prima del film Chi ha incastrato Roger Rabbit? Attore e regista che si è sempre diviso tra cinema e pubblicità, considerando entrambi una forma d’arte, ha portato il mono della pubblicità nei suoi film, come Ho fatto splash e lo storico Ladri di saponette, ma sempre nobilitandolo e mai con snobismo. Con Honolulu Baby è stato il primo a lavorare con la postproduzione in digitale, di fatto anticipando di dieci anni il cambio che ci sarebbe stato nella filiera. E, già in un corto del 1979, S.O.S. di Guido Manuli, aveva anticipato tutto il discorso sul femminile che appena oggi è diventato d’attualità. Maurizio Nichetti è sempre stato in anticipo sui tempi. E questa intervista ce lo conferma.

Con lo studio di Bruno Bozzetto facevate pubblicità già nei primi anni Settanta. Che mondo era?

“Negli anni Settanta le case di produzione come la Bozzetto avevano dei contatti diretti con i clienti: andavamo a trattare con i responsabili della comunicazione d’azienda, sottoponevamo le idee ai proprietari. I film dell’epoca, come Olivolà, Saila Menta e Lloyd Adriatico sono nati così. Alla fine degli anni Settanta il tramite con il cliente è diventato l’agenzia, e il nostro rapporto da allora è stato con i creativi. Ma prima se avevi un’idea che piaceva al capo azienda la potevi fare: è stata la fortuna di quella follia che c’era nella pubblicità dell’epoca. Uno spot come “Che sapore questo qua è un sapore di città” con persone che vengono ammorbate dagli scarichi delle automobili con la pubblicità delle agenzie internazionali non si sarebbe potuto fare”.

Ratataplan, il suo primo film, ha cambiato il cinema in Italia…

“Più che altro ha fatto capire che si potevano fare dei film che uscivano dagli schemi del mercato. Un film muto, fatto da ragazzi, senza uno star system accreditato, sulla carta non aveva speranze. Invece abbiamo dimostrato che si poteva battere negli incassi il film di 007”.

L’idea di fare un film senza parole, anni dopo il cinema muto, portando quella lezione nella realtà contemporanea, non è scontata

“Con la cooperativa Quelli di Grock, che avevo fondato, studiavamo i meccanismi del comico: il circo, lo slapstick, la commedia dell’arte, il cinema muto. Avevo maturato la convinzione che da Grock, che era il clown che ci dava il nome, a Stanlio e Ollio, la differenza è che questi ultimi erano vestiti come due persone borghesi della loro epoca. Ho pensato: ‘siamo nel 79, abbiamo una cooperativa giovane, facciamo una comica finale con la nostra generazione’. Lo sapevo fare perché avevo fatto mimo e avevo sceneggiato i cartoni animati, che erano più ‘scritti’ che parlati.

In Ho fatto splash ritorna il mondo della pubblicità: un uomo venuto da un altro tempo trova per caso lo slogan giusto per una bibita…

“Il mio secondo film me lo hanno chiesto in due mesi e me lo hanno firmato in bianco. Mi sono appoggiato alle cose che conoscevo, il Piccolo Teatro, La Tempesta, la pubblicità girata all’Idroscalo come se fosse il mare. Erano le cose che facevamo in quegli anni…. Ho fatto splash era l’idea che, in fondo, il pubblicitario dell’epoca fosse qualcuno di inconsapevole, quasi un bambino che aveva dormito vent’anni”.

Ladri di saponette mescola mondi lontani come il Neorealismo e la pubblicità. Come ha colto quel momento storico in cui sono arrivati i break nei film?

“Ai tempi delle tv commerciali la pubblicità è diventata il modo per finanziare la televisione: prendevano i film e li infarcivano di spot per guadagnare. In Ladri di saponette non mi scagliavo contro la pubblicità: Fellini, quando ha fatto Ginger e Fred, ne ha dato un’immagine negativa perché era fuori da quel mondo. Io non ho parodiato la pubblicità: ho rifatto le pubblicità credibili dell’epoca che facevo anch’io. Non mi interessava criticare, ma mettere l’accento sul fatto che, dopo che la pubblicità aveva iniziato a interrompere i film in tv, l’ascolto del pubblico non sarebbe più stato come prima”.

Per tutti gli anni Ottanta ha continuato a fare pubblicità…

Facevo i film della Ferrero con il pinguino che faceva il bagno con i bambini. Ed era una cosa molto sofisticata all’epoca: mettere insieme un cartone animato e un attore in carne ed ossa. Per IP abbiamo ricreato Jessica Rabbit con Francesca Dellera che girava la città in una macchina animata. Era anche un test: stavo preparando Volere volare e cercavo i finanziamenti”.

Ha girato spot storici come ‘Mi ami ma quanto mi ami’ per Sip. Che storia è stata?

“Sono subentrato al secondo spot e ne ho fatti altri 35 nel corso degli anni. È andata avanti la storia con tutta la famiglia. È stata la prima serie a episodi fatta in pubblicità”.

Un altro spot per Sip è quello con la segreteria telefonica ed E.T. Come ha lavorato con il personaggio di Spielberg?

“L’agenzia aveva un accordo, e aveva preso i diritti di E.T., con lui che appare alla fine. È stata un’emozione lavorare con quel personaggio. Ma eravamo obbligati per contratto a non avere alcuna foto dal set in cui la testa di E.T. era staccata dal corpo. Nell’immaginario dei bambini dell’epoca lui era qualcosa di vivo”.

Volere volare, in cui, da attore in carne ed ossa diventa fumetto, esce nel 1993, ma era stato scritto nel 1983, prima di Chi ha incastrato Roger Rabbit, giusto?

“Siamo riusciti a farlo solo negli anni Novanta perché Roger Rabbit aveva incassato… Se lo avessimo fatto nell’83 saremmo stati i primi! Io sono stato un caso, perché in Italia il percorso per fare cinema è un altro: non passa dai cartoni animati, la pubblicità, il teatro, il mimo. Mi ha arricchito la voglia di fare cose strane. Non ho mai fatto un film banale. E forse è il motivo per cu negli ultimi 25 anni non ho fatto cinema. Oggi, poi, hanno trovato l’AI che scrive le sceneggiature: ma non verrà mai una storia originale.

Il passaggio da persona a cartone animato, dato anche dal suo look e le sue movenze, è sempre stato naturale e una costante della sua carriera. Era già tutto previsto?

Sono cose che non sono semplici da fare, non ne ho mai parlato in termini tecnici. Mi vengono naturali perché ho fatto un certo percorso. Ma per ‘diventare un cartone animato’, devi avere una padronanza del movimento che se non hai fatto teatro, mimo e cartoni non puoi avere. È molto faticoso, neanche di Roger Rabbit hanno fatto il numero 2, così come io non ho fatto il seguito di Volere volare. Entrambi coscienti che una fatica così si fa una volta sola… Con il digitale è diventato tutto più semplice”.

A proposito, Honolulu Baby è stato il primo film in Italia, e terzo nel mondo, a essere post prodotto in digitale, un primato?

Era il 2001 e a quei tempi c’era un problema legato alle sale che proiettavano in pellicola. Anche se lavoravi in digitale dovevi sempre tornare su pellicola. Ma abbiamo dimostrato che tutta la filiera di postproduzione poteva essere fatta in digitale. Il film è stato boicottato da tutti perché capivano che quel tipo di tecnologia avrebbe mandato in disoccupazione molti settori del cinema. Solo 10 anni dopo le sale erano pronte per proiettare il digitale”.

Il film S.O.S., di Guido Manuli, immagina che le donne abbandonino gli uomini. È un film che, quasi 50 anni fa, anticipava il discorso di oggi. Veggenza?

“Il merito è di Manuli, soggetto e sceneggiatura sono suoi. È premonitore di una insoddisfazione e di una ribellione giusta che il mondo femminile ha poi avuto contro  una società che relegava le donne a ruoli che non volevano”.

Questo fa il paio con Iaia Forte, che dice che è un grande direttore di attrici perché ha una spiccata parte femminile. È così?

“Nasce semplicemente dal fatto che nei miei film ero il protagonista maschile ed è stato inevitabile avere attenzione per i personaggi femminili. In Amichemai, il mio ultimo film, ho più donne che uomini nel cast. Il mondo femminile mi ha sempre affascinato molto. Sin da bambino non mi piaceva andare a giocare a calcio, o dove erano tutti maschi. I ragazzi quando c’erano le ragazze erano meno volgari, aggressivi e cameratisti.

Fellini diceva che “i film vengono come vogliono loro e non come vuole il regista”. Lo pensa anche lei?

“È vero. Un film come Luna e l’altra era stato scritto per Angela Finocchiaro, nel ruolo di una maestra milanese. Quando mi ha detto di aspettare una bambina, ho dovuto cambiare tutto. È diventata una maestra napoletana. Un film sull’immigrazione meridionale a Milano nel 1995-96, proprio negli anni della Lega Nord”.

di Maurizio Ermisino