Viva VERDI. Durante il Risorgimento, le persone non potevano scriverlo apertamente, e usavano l’acronimo del famoso compositore per dire viva Vittorio Emanuele Re D’Italia. L’abbaglio, il nuovo film di Roberto Andò con Toni Servillo, Ficarra e Picone, è ambientato proprio durante quel periodo. E allora è normale che ci sia Giuseppe Verdi come nume tutelare nella colonna sonora originale (https://orcd.co/labbaglio-ost), a firma di Michele Braga ed Emanuele Bossi (edita da Edizioni Curci). È una colonna sonora che gioca su due mondi musicali ben distinti: l’attesa di un destino epico che deve compiersi nella spedizione dei Mille e il tono meno serio e a tratti divertente incarnato dai due disertori.
Come ci si rapporta a Giuseppe Verdi?
Intanto non ci si rapporta a un mostro sacro come Verdi. Quello che succede, quando si inizia a lavorare in un film, è che si cerchino dei mondi sonori di riferimento: è un modo di dialogare per un regista. Dal punto di vista artistico a Verdi non mi ci rapporto. Io ed Emanuele Bossi siamo molto rispettosi di quel mondo, ma è un fatto che sia stato un riferimento musicale, soprattutto inizialmente quando ancora non c’erano le immagini. Mentre Roberto Andò girava abbiamo iniziato a scrivere, mandando ogni tanto un tema. All’inizio la musica era ispirata a Verdi e qualcosa è rimasto. Alla fine abbiamo cercato di non rendere il film troppo epico – pur avendo alcune scene epiche – ma abbiamo utilizzato un codice di musica meno tonale, meno verdiano, più contemporaneo per raccontare la morte in battaglia. Ci sono vari elementi nella colonna sonora, e alcuni attingono alla musica di Verdi, che è quella del periodo in cui è ambientato il film.
È stata l’occasione di registrare con una grande orchestra e registrare all’Auditorium Parco della Musica a Roma…
È stata una bella esperienza. Lo abbiamo fatto grazie alle Edizioni Curci, che hanno creduto nel progetto, alla Digital Records, di Goffredo Gibellini, che ha organizzato un location recording di tutto rispetto, perché la Sala Petrassi non nasce come studio di registrazione. L’ascolto e la qualità di registrazione sono di alto livello. Siamo stati molto contenti a livello produttivo.
I tuoi inizi sono nella musica rock. Come sei diventato un compositore di musica per i film?
È stato abbastanza casuale, come spesso avviene. Non nasco all’interno dell’ambiente della cinematografia. Non ho masticato cinema se non quello che andavo a vedere e di cui sono innamorato sin da piccolo. La musica è stata una grande compagna. Ho iniziato a suonare a 13-14 anni. Ho suonato di tutto, ho divorato tanti tipi di musica e me lo sono ritrovato. In ogni progetto cerco di trovare un’idea musicale che non sia il mio timbro mi piace perdermi in universi sonori, approfondirli, mettermi in discussione. Ho iniziato con la musica rock, a scuola, poi ho suonato il jazz, ed è stato un grande amore. L’ho ripudiato e mi sono immerso nella musica elettronica, con i Kitchen Tools. Poi sono stato chiamato da Piero Pelù nella sua carriera solista: sono stati due anni, un’esperienza bellissima, dal vivo e in due o tre dischi. Mentre suonavo con Piero ho iniziato a musicare alcuni corti di amici. Mi piaceva, diventi anche tu, da musicista, autore del film. Hai un’arma potentissima, la musica, che è quella che è più direttamente in connessione con le emozioni dello spettatore.
Il lavoro sulle colonne sonore è diverso rispetto alla carriera nella musica pop? È un lavoro più sicuro?
Non lo so. Non sono stato un grande musicista pop. Secondo me se credi nella tua musica, poterla proporre a un pubblico, piccolo o grande che sia, che viene a sentirti, che compra il tuo disco, ti ascolta in streaming, è un grande privilegio. Per me fare musica per film significa rinnovamento continuo, viaggio in nuovi mondi musicali, ascolto di cose che non conoscevo, voglia di mettersi in discussione. Non che questo nel pop non avvenga, penso a un gruppo come i Radiohead. Dipende che scelta si fa. Si tratta di mettersi in discussione e proporre cose nuove, cose in cui si crede. Il cinema mi permette di dedicarmi ogni tot a un nuovo progetto e immergermi in quello, provando musiche mai testate prima.
È un lavoro di relazione con i registi…
Credo che funzionino come le relazioni umane. Si percorre un tratto di strada insieme, che può essere un film, o due o tre, ci si separa e ci si ritrova. Segue la dinamica delle relazioni umane: su certi progetti ci si trova meglio, su altri ci si trova peggio. Si tratta di lasciare la libertà ai registi di scegliere chi è più idoneo per quel film o quei film. Fare un film per il cinema è sempre un’avventura, è terribilmente complicato far funzionare tutto: il regista è il fulcro di questa macchina che è in moto e deve essere gestita. Non è scontato che se le reazioni umane siano buone anche quelle artistiche lo siano. E io non do per scontato che se ho lavorato con un regista debba fare ogni suo film.
Hai contribuito all’esplosione di un giovane grande regista come Gabriele Mainetti, con Lo chiamavano Jeeg Robot e poi Freaks Out
Lo chiamavano Jeeg Robot è stata una scuola pazzesca. La prima volta che ho visto un film nascere e partire senza distribuzione, con la voglia quasi feroce di Gabriele di portare a termine questo progetto, la sua tenacia e la qualità di tutte le personalità artistiche. Io non avevo grandi lavori alle spalle e Gabriele mi ha dato fiducia. È stata la prima volta che ho capito come la musica possa fungere anche da contrappunto alle immagini. Se queste danno molto dal punto di vista della messinscena, dell’epica, la musica può anche andare in controtendenza. Ho imparato che è importante avere equilibrio quando si musica una scena. Esserci quando è stato proiettato alla Festa del Cinema di Roma e vedere la reazione del pubblico in sala è stato magnifico. Se pensi a un tema da supereroi ti viene spontaneo renderlo epico, pensiamo alla musica di John Williams per Superman e altri film. Per quanto riguarda Jeeg Robot abbiamo capito che il momento epico del film poteva essere il finale, in cui il protagonista esce dal suo egoismo e capisce che da un grande potere derivano grandi responsabilità.
Hai contribuito anche al successo di Sydney Sibilia così come di altri film, da Smetto quando voglio a Mixed by Erry. Come hai lavorato con lui?
Ha un immaginario molto forte, fa quello che vuole, e ci tiene a che il pubblico si diverta. Gli piace intrattenerlo, ma in maniera intelligente, raccontare storie molto particolari e divertenti. Lui intende la colonna sonora molto con la musica di repertorio. In Smetto quando voglio man mano che la storia va avanti, nei tre film, e che i personaggi acquisiscono un ruolo che va più nel genere, anche la colonna sonora va sempre meno verso il repertorio e sempre più verso la musica originale. Nel terzo film la narrazione andava seguita: arriva un villain, anzi due, e ognuno deve essere raccontato. Nei suoi film bisogna saper andare a inserirsi tra un repertorio e l’altro. Mixed by Erry è molto riuscito, l’ho amato. Come mi succede quando lavoro con i The Jackal, non volevo usare i cliché per raccontare Napoli. Pensavo a una Napoli popolare e mi veniva in mente tanta musica: Napoli Centrale, Tullio De Piscopo, Pino Daniele, musica vera, suonata bene. Napoli è raccontata con una sorta di funky suonato a volte in modo leggermente psichedelico. Per raccontare il momento in cui viene piratato Sanremo siamo partiti dalla sigla storica di Sanremo, ricantata, filtrata e messa in un mash-up con una base thrilling e action.
Come è cambiato il vostro lavoro con l’arrivo delle piattaforme?
Il mio primo film è del 2007: dopo un po’ sono arrivati i social. Sono un compositore figlio del computer e dei social media. Lo streaming per me è il pane quotidiano, sia da fruitore che a livello professionale. Ha portato a una standardizzazione verso un gusto internazionale, dall’altro il cinema e la serialità italiana devono competere in un campionato internazionale. È qualcosa che evita di fossilizzarsi e guardarsi solo l’ombelico. Le sfide sono internazionali e ci dobbiamo strutturare. Ma lo stiamo già facendo. Non cambia molto, ma quando si lavora nella serialità è un lavoro più industriale, con più persone con cui rapportarsi, mentre nel cinema si rimane al rapporto con il regista.
Ha lavorato anche a musiche per la pubblicità?
Ho fatto pubblicità. Solitamente lavoro a campagne istituzionali. Le più recenti sono Bancomat, e Fondamentale, la filiera di costruttori italiani, con Luca Zingaretti.
Quale colonna sonora ti resta di sognare di fare?
Vorrei cimentarmi con l’horror e proporre qualcosa di interessante della mia musica dal vivo. Da questo punto di vista il live mi manca. E in un’epoca di Intelligenza Artificiale manca il contatto con le persone.
di Maurizio Ermisino