Ed è arrivato il 5 aprile, la data fissata dalla Casa Bianca perché TikTok fosse venduta a una entità non cinese, gradita al Governo americano. Ed è arrivata anche la proroga, esclusa inizialmente dal presidente Donald Trump: “Così facendo salviamo TikTok, facciamo in modo che rimanga in buone mani e gli permettiamo di rimanere in piedi. Senza l’approvazione degli Stati Uniti non esiste TikTok. Con la nostra approvazione, vale centinaia di miliardi di dollari, forse migliaia di miliardi”, aveva scritto Trump alla fine di gennaio, annunciando la prima proroga di 75 giorni.
Perché non dimentichiamo che la vendita di TikTok è stata decisa da Joe Biden, il precedente presidente USA, che aveva fissato un termine di 180 giorni scadente proprio alla vigilia dell’entrata in carica di Trump. mentre la Corte Suprema americana aveva confermato la legge che vietava TikTok, respingendo il ricorso della società che aveva chiesto di abolire la norma nel nome della libertà di espressione. Il tutto era così passato in mano al neopresidente.
La seconda proroga è stata annunciata l’altro ieri, ancora di 75 giorni, perché “L’accordo richiede ulteriore lavoro per garantire la firma di tutte le approvazioni necessarie, ed è per questo che sto firmando un ordine esecutivo per mantenere TikTok attivo e funzionante per altri 75 giorni”. Perché effettivamente, negli ultimi giorni, alcuni pretendenti statunitensi si erano fatti avanti per rilevare le attività di TikTok USA. O per provare a sottrargli i creator.
Le offerte di Oracle e di Amazon
Senza voler contare OnlyFan, il cui fondatore Tim Stokely si è associato a un exchanger di criptovalute per presentare un piano – definito in fase avanzata – per l’acquisizione di TikTok da parte di Zoop, un sito mainstream e adatto alle famiglie, che restituisce la maggior parte delle sue entrate ricompensando gli utenti che pubblicano per aver aumentato il coinvolgimento generale, non sono mancate anche altre iniziative sicuramente più serie da parte di alcuni operatori. Due su tutti spiccano: Oracle e Amazon.
Il primo, che aveva già presentato una proposta di acquisto di TikTok in associazione con Walmart nel corso del primo mandato di Trump, è tornato alla carica con un’offerta congiunta con il fondo di investimento Andreessen Horowitz, che già possiede quote di Facebook, Instagram e Twitter, e rafforzerebbe così la sua presenza nei social media. Oracle, dal canto suo, può vantare una lunga collaborazione con TikTok, tenendo sui propri server i dati e la informazioni degli utenti statunitensi, al di fuori – molto teoricamente – della ‘portata’ della Cina.
Amazon, d’altra parte, è molto legata a TikTok negli USA. L’applicazione cinese, che conta 170 milioni di utenti negli Stati Uniti, è diventata un importante centro di acquisti retail, con influencer che consigliano prodotti agli spettatori. Sebbene l’azienda abbia una propria attività di eCommerce – TikTok Shop – molti influencer incoraggiano le persone ad acquistare i prodotti su Amazon, che riconosce agli influencer una quota superiore delle transazioni. Amazon fornisce inoltre alcune infrastrutture tecniche attraverso AWS. In passato, Amazon aveva addirittura cercato di creare una sorta di clone di TikTok, chiamato Inspire, all’interno della propria app. L’iniziativa è andata però incontro a un fallimento nell’attirare gli acquirenti e l’azienda l’ha rimossa dall’app quest’anno.
La Cina dice no ai possibili acquirenti
È risaputo che la Cina è molto sensibile al trasferimento di tecnologie avanzate a entità straniere: qualsiasi accordo che preveda il trasferimento degli algoritmi di TikTok dovrebbe affrontare una potenziale opposizione da parte del governo cinese, anche se non esplicitamente dichiarata.
Pur sostenendo ufficialmente i principi del libero mercato, è ragionevole supporre che il governo cinese veda la situazione di TikTok attraverso una lente di sicurezza nazionale. Qualsiasi compromissione percepita dei dati o del vantaggio tecnologico sarebbe una preoccupazione primaria dell’esecutivo cinese. Inoltre c’è anche un sottofondo di protezionismo nei confronti delle aziende nazionali, che non possono essere ‘cedute’ allo straniero. In questo la parabola di Jack Ma e di Alibaba è ancora significativa: non vi è azienda che possa dirsi ‘superiore’ al controllo del PCC.
Per gestire le operazioni, rispettare le leggi locali e gestire le attività commerciali in regioni geografiche specifiche, ByteDance ha creato società affiliate , come TikTok Inc negli Stati Uniti, TikTok Pte. Ltd. a Singapore, TikTok Information Technologies UK Limited nel Regno Unito e TikTok Technology Limited in Irlanda: tutte filiali possedute e controllate dalla società madre, ByteDance che ha sede a Pechino. Di qui l’inevitabile scontro tra Cina e USA.
Donald Trump è una tigre di carta?
I portavoce del Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) e del Ministero degli Affari Esteri hanno ripetutamente affermato che la Cina adotterà “tutte le misure necessarie” per salvaguardare con fermezza i diritti e gli interessi legittimi delle sue aziende. In particolare la Cina ha aggiornato anni fa (nel 2020) le proprie leggi sul controllo delle esportazioni per includere tecnologie come gli algoritmi di raccomandazione di informazioni personalizzate, la tecnologia alla base del successo di TikTok.
Ma c’è anche un’altra spiegazione per l’apparente arrendevolezza di Trump verso TikTok. Senza sposare teorie complottistiche – Trump è un agente russo ‘in sonno’, o è condizionato dal suo consigliere Elon Musk che ha vitali interessi in Cina (Tesla) – rimane il fatto che i video di TikTok hanno fatto molto a favore del Presidente in campagna elettrorale, così con i podcast e i social: non è un caso che i giovani maschi abbiano votato Trump in grande maggioranza. Difficile andare con la mannaia in mano nei confronti di un ‘grande elettore’ con il video social cinese. Di fronte alla necessità di trasformare le minacce in azioni concrete, gli USA sotto Trump si troverebbero davvero ad essere, secondo la fortunata definizione di Mao Zedong, una ‘tigre di carta’. E di rinvio in rinvio cercherebbero di minimizzare una ‘non decisione’ che è una sconfitta di fatto.
Vi è inoltre un’altra osservazione, di carattere più generale, che potrebbe illustrare il tutto. Trump, con la sua firma magniloquente in calce agli ordini presidenziali, è un egocentrico che quando incontra una decisa opposizione non sa più come comportarsi, e abbassa le penne per andare verso un negoziato non si sa quanto manipolato. Lo abbiamo visto con Vladimir Putin, il presidente della Russia: l’Art of the Deal (il titolo del suo libro più famoso) con lui non ha funzionato, e il presidente USA non sa più che pesci pigliare per addivenire a una tregua. Eppure con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si era comportato ben diversamente nello Studio Ovale, pretendendo un accordo su una gran parte delle riserve mineraria dell’Ucraina e non dando alcuna garanzia per il futuro. Alla Russia, invece, neppure un gesto simbolico come dazio sulle importazioni.
Lo stesso accade con la decisa reazione di Canada e Messico: a entrambi i paesi sono stati imposti dazi del 25%, ma non sono ancora stati resi operativi. I dazi sono stati posticipati di un mese dopo le telefonate con la presidente messicana Claudia Sheinbaum e il primo ministro canadese Justin Trudeau. Entrambi si sono impegnati a impiegare migliaia di agenti per “proteggere il confine e fermare il flusso di fentanyl”.
Cosa questo abbia a che fare con le tariffe doganali nessuno, a Washington, lo ha spiegato. Ma tant’è…
di Massimo Bolchi