Youmark

Gare creative: la novità è che Upa dice alle aziende “fate meno gare”. Perché del “quelle che fate fatele bene” se ne parla da anni. Nasce ‘La Buona Gara’. E tutti si concorda sul peso del tema culturale. Per dirla spiccia, la creatività al procurement ammazza il settore. Così come la non denuncia. Partnership, non fornitura

Permettete una super sintesi. Ma tanto per dimostrare quanto l’argomento giaccia tutt’ora irrisolto, nonostante se ne parli da sempre. Giusto per non andare troppo lontano, partiamo dall’era Marco Testa. Si chiamava ancora Assocomunicazione e le gare erano il terreno di battaglia del vicepresidente Peter  Grosser, avendo istituito un meccanismo di monitoraggio. Nel 2008, ad esempio, si rilevava come le agenzie aderivano al check, meno le aziende, e le cose sembravano migliorare sul fronte trasparenza ed equità. Tanto che il lavoro proseguì, anche sotto la presidenza Costa nel 2012, arrivando così, nel 2017, alla Assocom di Emanuele Nenna che in concerto con Upa e Unicom definì il modo per innescare un circolo virtuoso tra aziende e agenzie in tema gare grazie al Pitch Evaluetor.

Bene. Settembre 2019, nasce ‘La Buona Gara’, manuale per indicare ad aziende ed agenzie come affrontare al meglio un pitch e instaurare relazioni durature, trasparenti ed efficienti. Il lavoro è frutto della collaborazione tra quella che è diventata Una e Upa.

Cosa ci piace: la presa di coscienza che sotto il problema di un mercato che bistratta il valore della creatività riducendo le agenzie a fornitori ci sia un tema culturale.

Per questo per prima cosa invitiamo tutti a scaricare dal sito Upa e Una e soprattutto a leggere attentamente quanto dal nuovo manuale indicato.

Si parla di partnership perché la comunicazione serve a costruire assieme la Marca. Il che presuppone il medio e lungo termine nel rapporto. Stridono gare in cui si cambia agenzia ma si prosegue nella strategia definita con la precedente. Si consiglia pure di evitare quelle one shot limitandole ai casi in cui il focus siano discipline e progetti specifici, da definire comunque in accordo alla strategia cappello concertata con l’agenzia in carica. Ma anche gare con troppi concorrenti, che diventano boomerang pure per l’azienda. Che mai dovrebbe sostituirsi magari mixando idee creative dei diversi partecipanti. E poi attenzione alla scelta dell’agenzie da invitare. Informarsi, capire. Senza dimenticare che esistono, vengono esplicitamente menzionati nel manuale, altri modi per definire gli ipotetici partner senza ricorre alla gara.

Ovviamente torna il tema della trasparenza. Dell’equità. Il budget deve essere dichiarato. Dovrebbe essere prevista remunerazione, specie nei casi che obbligano l’agenzia a costi di produzione. Sino a ricordare come ancora oggi un terzo delle gare resti senza vincitore. Fatto cui si può solo aggiungere ‘no comment’.

Il tutto ribaltando le responsabilità anche alle agenzie. Perché è vero, la scelta delle gare cui partecipare parla della loro rilevanza, così come il pretendere di sapere chi partecipa. Altrettanto il denunciare aziende con comportamenti non consoni. Il dire no. Il difendere il proprio ruolo di partner, facendo squadra. Perché il rischio è di impoverire ulteriormente il comparto. Non solo a livello di bilanci delle singole realtà, anche nel lungo, non attraendo talenti, non impattando in modo rilevante. E si sa, la concorrenza è tanta, la consulenza in primis, rischiando di trasformare la creatività in commodity.

Quindi, concludendo, soluzioni vere non ce ne sono. Se non sì può obbligare, l’unica è creare cultura. Formare, così che le aziende ritengano indispensabile avere un mercato di agenzie competenti, creative, rilevanti, efficaci ed efficienti, che competano al medesimo loro obiettivo di successo della Marca. E le agenzie siano realtà preparate, d’avanguardia, capaci di rispondere, ognuna per le proprie competenze e posizionamento, a richieste del mercato consone alla propria identità, rinunciando a logiche grossolane  di ‘piuttosto che niente è meglio piuttosto’.

Eppure molto tempo fa tutto questo funzionava. E’ vero, il mondo era diverso. Però anche le persone della comunicazione erano diverse. Insomma, era più facile parlare direttamente con l’amministratore delegato, con l’imprenditore, con il direttore marketing. C’era competenza, rispetto dei ruoli e ammirazione reciproca. La cultura della comunicazione aveva valore riconosciuto. Insomma, senza nulla togliere, sembra difficile poter veramente dialogare se il medium il più delle volte è il solo procurement.