Se non direttamente della dipendenza, certamente in seno alla definizione di trend. E qui l’argomento ci porta dritti alla rincorsa del ‘dare ai ragazzi quello che vogliono’ per conquistarli. Il tutto per fare il bene dei fatturati dei propri prodotti, ma non certo di una generazione. Che poi, se non si salvaguarda il tenore culturale e valoriale di un paese, a rimettercene nel lungo è pure l’economia. Ovviamente, si tratta di un riassunto che inevitabilmente banalizza le trame di un argomento così rilevante, ma accennare una riflessione ci è parso in questo contesto utile, anche perché in troppi si nascondono dietro il dito del proprio interesse. Ma torniamo al racconto dei contenuti della conferenza.
Il caso del quindicenne di Torino a cui è stata diagnosticata una vera e propria astinenza da smartphone ha fatto discutere. E ha lasciato il segno. È stato il campanello d’allarme di un fenomeno che noi tutti abbiamo davanti agli occhi già da qualche anno. L’Intergruppo Parlamentare Prevenzione e Riduzione del Rischio ha così proposto un patto tra istituzioni, scuola e famiglie per fermare l’emergenza. L’idea, che è un seme piantato per far crescere prima di tutto la consapevolezza in ognuno di noi, e, man mano, una rete sempre più ampia in grado di supportare i ragazzi, è stata presentata ieri a Roma in una conferenza stampa all’Hotel Nazionale, a pochi passi dalla Camera dei Deputati.
Il decalogo per la salute dei bambini e dei ragazzi
- Essere un modello positivo di comportamento digitale, perché i bambini imparano osservando, e noi dobbiamo mostrare un uso moderato e consapevole dei dispositivi. 2. Stabilire regole chiare sull’uso della tecnologia, come definire orari e limiti di utilizzo. 3. Proporre valide alternative offline, come attività fisiche, giochi creativi, letture condivise ed esperienze all’aperto. 4. Vietare l’uso dei dispositivi come strumento di consolazione e distrazione: non dobbiamo offrire uno schermo per calmare un bambino. 5. Proteggere i momenti relazionali, come i pasti, il tempo prima di dormire e le conversazioni familiari. 6. Adeguare l’uso dei dispositivi all’età: nessuno schermo prima dei 2 anni, mai schermi accesi senza la nostra presenza prima dei 5, evitare l’accesso autonomo ai social prima dei 12. 7. Non anticipare l’ingresso nei social media. 8. Supervisionare attivamente, anche condividendo il tempo on line. 9. Riconoscere i segnali d’allarme, come la ricerca ossessiva del dispositivo o reazioni aggressive alla sua assenza. 10. Agire insieme come comunità educante: scuola, famiglia, sanità e istituzioni devono lavorare insieme.
Dobbiamo essere noi, prima di tutto, a creare delle alternative
Noi genitori, e anche tutti gli attori che si occupano della formazione dei ragazzi. Ai ragazzi, e a chi è a contatto con loro, serve una sorta di ‘alfabetizzazione’, tutto questo va spiegato nel modo più chiaro possibile. L’importante è parlarne. I social media creano una distanza: abbiamo la sensazione di essere connessi con tutto il mondo, ma in realtà siamo lontani proprio da chi abbiamo accanto. Pensiamo che il web ci possa dare conoscenza, ma non è paragonabile a quella che otteniamo con lo studio. È vero che gli smartphone ci mettono in connessione con il web, e quindi con mondi che vanno regolati. Ma regolare siti e app, vietare i cellulari, non basta. “Il vero convincimento nasce dalla maturazione dell’importanza virtuosa di avere certi comportamenti” suggerisce Gian Antonio Girelli, Presidente dell’Intergruppo Parlamentare. “Non lo faccio non perché è vietato, ma perché mi conviene farlo. Leggere, studiare, stare in compagnia: serve amare queste cose e comportarsi in questo senso”. “È fondamentale intervenire subito, non con divieti o restrizioni punitive, ma attraverso un serio percorso educativo di consapevolezza digitale, un dialogo costante con le aziende produttrici per la progettazione di dispositivi più etici e sicuri, e regole chiare per tutelare specialmente i giovani. Solo unendo le forze di famiglia, scuola, istituzioni e imprese potremo davvero invertire questa tendenza preoccupante” ha dichiarato Alessio Butti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’Innovazione.
Serve prima di tutto un cambio culturale
Serve una presa di coscienza, ma da parte di tutti. “Si pensa di dover educare i bambini e i ragazzi” riflette Girelli. “Ma il vero sforzo è educare chi educa. Perché quando educo imparo. E quindi serve prevedere dei nuovi modelli nei confronti della famiglia, della scuola, di chi insegna sport”. La comunicazione, la previsione di campagne ad hoc e di eventi può aiutare? Lo abbiamo chiesto a Girelli al termine dell’incontro. “Come Intergruppo abbiamo la necessità di essere propositivi tra di noi per essere propositivi nei confronti del Parlamento. E poi di capire come trasmetterlo all’esterno” ci ha risposto. “Stiamo cercando di creare una relazione con le realtà regionali, dove esistono degli intergruppi di prevenzione. E, sempre di più, dovremmo cercare di allacciare rapporti con le altre espressioni sociali: il mondo della scuola, dello sport, dell’associazionismo culturale. Senza la presunzione di avere la ricetta giusta, ma con l’ambizione di suscitare interrogativi e costruire insieme quella ricetta per la comprensione delle realtà che spesso sfugge. Il mondo della comunicazione ha per sua natura la capacità di mettere in campo dei messaggi che non siano solo quelli di alert, di pericolo, del dato drammatico. Ma anche di provare a trasmettere questo necessario coinvolgimento”. Tradotto: a oggi si sta cercando di creare attenzione e una rete intorno al tema. Non sono previste campagne di comunicazione mirate. E anche il video emozionale che è stato preparato è solo un primo spunto. Ma siamo appena all’inizio.
Quando lo smartphone è diventato il regalo della Prima Comunione
Il professor Giuseppe Ducci, Direttore del Dipartimento Salute Mentale Roma 1, ha spiegato che negli ultimi 4 anni nell’unione operativa dedicata alla fascia 14-25 anni i pazienti in carico sono passati da 800 a 1800 negli ultimi 4 anni. Gli accessi in pronto soccorso con una diagnosi psichiatrica hanno avuto un’impennata nel 2013 e nel 2021. Il 2013 è l’anno in cui il prezzo degli smartphone è diminuito e questi sono diventati il regalo per la Prima Comunione e sono arrivati in mano a ragazzini sempre più giovani. Nel 2021 è chiaramente dipeso dalla pandemia, durante la quale gli adolescenti hanno perso contesti normativi e relazionali. Questo ha portato all’aumento dei disturbi alimentari, dell’autolesionismo e dell’uso di sostanze, che è diventato gravissimo e multiplo. E a un problema di violenza, soprattutto digitale: il cyberbullismo è in crescita. “Il cellulare non è come la tv che porta a una focalizzazione dell’attenzione” ammonisce Ducci. “L’attenzione è spezzettata, frammentata da tutte le notifiche che ci interrompono di continuo”.
Ma quando si può parlare di dipendenza?
Quando l’uso dello smartphone diventa la principale attività della giornata, quando è associato a sintomi di astinenza – come ansia, irritabilità e tristezza – in caso di impedimento ad usarlo. Quando assistiamo a una perdita di interesse vero per gli hobby e le attività precedenti di diverso tipo. Stiamo imparando a fare i conti con un nuovo termine, ‘nomofobia’, cioè ‘no mobile phone phobia’. La dipendenza da smartphone porta a disturbi del sonno e alle relative conseguenze, all’aumento di ansia depressione, a disattenzione e difficoltà di concentrazione. “È importante definire strategie di riduzione del rischio e di impegnarsi per facilitare, fin dai prima anni fi vita, corrette abitudini e stili di vita tra cui un equilibrato uso dello smartphone” ha spiegato Michela Gatta, Direttrice dell’UOC di Neuropsichiatria Infantile di Padova. Esiste anche progetto con il software “bilancio di salute digitale” della FIMP, la Federazione Italiana Medici Pediatri, in Sardegna, Emilia Romagna e Liguria, che ha già coinvolto 5mila bimbi e ragazzi. Il Presidente nazionale D’Avino ha spiegato che “il quadro è sconfortante, ma i pediatri possono aiutare le famiglie”. “La prevenzione delle dipendenze da smartphone nei giovani deve iniziare in famiglia, quando si è piccoli, ed estendersi al rapporto tra pari nell’adolescenza” ha dichiarato Maria Rosaria Campitiello, Capo Dipartimento della Prevenzione, della Ricerca e delle emergenze sanitarie del Ministero della Salute.
Non si tratta quindi di combattere la tecnologia in sé
Anche perché sarebbe impossibile. Ma di lavorare sul suo impatto. Anche se, riguardo al ‘mezzo’ in questione, ci sono delle reazioni. In Francia 7 famiglie hanno denunciato TikTok, portando delle evidenze scientifiche riguardo ai danni apportati ai giovani. Sempre in Francia è stato creato un manifesto riguardo al problema. In America esistono dei light phones, che non prevedono alcune funzioni, ma permettono di telefonare. Il problema, in ogni caso, non è solo nazionale, ma europeo, o addirittura mondiale. Ma l’importante, prima di tutto, è averne preso atto.
di Maurizio Ermisino