La notizia della fusione tra Publicis e Leo Burnett è solo l’ultima di una lunga serie. Al contrario però di quanto accade in altre industry, dove seppur in nome di convenienze di business o di borsa, si acquisiscono o fondono realtà, facendo però continuare a esistere i brand capostipiti, in nome del valore che portano indissolubilmente con sé (vedi i vari casi del mondo della moda, ma anche dell’auto), nell’universo comunicazione spariscono sigle storiche che in diverso modo hanno anche contribuito a creare la stessa cultura di settore.
La vostra visione
Ci piacerebbe aprire un giro di microfoni a riguardo per sapere come la pensate, per questo vi invitiamo a scriverci a redazione@youmark.it. Dal canto nostro, ci è parso utile partire dall’opinione di uno dei pochi manager della comunicazione nostrana con un’esperienza internazionale nei board di vertice, che in prima persona si è occupato di acquisizioni e fusioni, a livello internazionale e italiano, Massimo Costa, oggi presidente e Ceo EJ : “Le mie sono considerazioni abbastanza classiche, cicliche, che riguardano non solo il nostro business. Ci sono periodi in cui le cose vanno molto bene, quindi avere tante operation ti permette di poter giocare su più tavoli, e periodi di maggiori ristrettezze, dove più si concentra, più si riducono i costi mantenendo un livello di profittabilità adeguato”.
Italia gregaria
Il punto, per Costa, è che a decidere tutto sono sempre le case madre, Parigi, altrimenti Londra o New York, per mantenere quel livello di profittabilità che gli azionisti vogliono avere. Il mercato italiano, quindi, è evidentemente ancora più facile vittima di queste scelte, perché meno innovativo, meno creativo, meno digitale, meno moderno e soprattutto perché esegue gli ordini delle case madre. Insomma, il libero arbitro non è proprio l’animale più facile da trovare nel business nostrano.
Far sparire dei brand storici non è errore?
“Stiamo parlando di aziende quotate in borsa e come tutte le aziende quotate si ha il compito di dare dei dividendi agli azionisti. E’ l’unico vero obiettivo. C’è chi lo fa facendo automobili, c’è chi lo fa facendo pasta asciutta, c’è chi lo fa facendo dentifrici e c’è chi lo fa facendo comunicazione. La capacità di essere più bravi creativamente, più organizzati in termini digitali o di tecnologia, è un vantaggio competitivo che dovrebbe permettere di performare meglio e quindi di portare più dividendi agli azionisti. A nessuno interessa se dovendo far sparire dei brand. Certo, non sono contento che non esista più la Young & Rubicam, ci ho passato trent’anni nella mia vita, però non è che non ci dormo di notte. Purtroppo il concetto è ‘show me the money’. Ti misuri con i quarter, i soldi o li fai o non li fai. E se non, si chiude baracca e burattini”.
Ma non significa anche rendere un po’ più commodity questo lavoro?
“Tutti stiamo seguendo le vicende Stellantis. Ricordate? Quando eravamo piccoli la Lancia era una macchina elegante, che competeva con Mercedes e BMW. Adesso è la Y10. E la Fiat, è la 500. Piange il cuore, ma sono le regole, non le conseguenze, del mercato quando decidi di far parte di un ingranaggio capitalista guidato dalla finanza”.
E’ per questo che hai deciso di creare EJ?
“In Italia aprire un negozio è difficilissimo perché banche e burocrazia non aiutano, chiunque abbia una piccola impresa ogni giorno lotta con fatture e debiti. Ho creato EJ come scelta di payback. All’inizio volutamente puntando più sulle produzioni televisive di qualità, che però i clienti non comprano, come anche non volendo partecipare alle gare, per diventare però poi un’agenzia ‘normale’”.
E il futuro?
Obiettivo avere una mia vita personale, fuori da questo mondo, diciamo prima di avere 97 anni. Scherzi a parte, EJ è al suo terzo anno di vita, è in profitto e ha una bella pipeline per il ’25, le persone che ci lavorano sono molto brave. Son loro che porteranno avanti la loro scelta imprenditoriale. Io adesso vorrei fare altre cose, andare in barca a vela, fare pubblicità non mi interessa più. Secondo me ci sono tre capitoli che uno scrive nella sua storia, quello dell’infanzia, dell’università, dei fidanzamenti, della scuola, della mamma, del papà, delle vacanze che finisce con l’università, poi c’è il capitolo del lavoro, con i mutui, le banche, i bambini, il dentista, i debiti, la macchina, il divorzio, e poi c’è l’ultimo, quello che ognuno dovrebbe avere la salute e la libertà di poter scrivere come vuole. Quello in cui io sto per entrare. E la pubblicità in questo capitolo non c’è”.