Il cinema di Natale, o meglio delle feste, da qualche anno non è più solo il cinema più commerciale. Anzi, una buona tradizione vuole che il Natale e i giorni immediatamente precedenti siano appannaggio dei film più di cassetta. E che la finestra di Capodanno e dei giorni successivi, passata l’abbuffata di blockbuster, sia l’occasione per nutrire l’anima con del grande cinema d’autore. Lo sa bene Lucky Red che, due anni fa, a gennaio, lanciò a gennaio i film di Wim Wenders e di Hayao Miyazaki. Quest’anno ritenta l’accoppiata cinema d’autore / animazione d’autore, con l’uscita, entrambi il 1 gennaio, del film d’animazione La piccola Amélie e di No Other Choice – Non c’è altra scelta di Park Chan-wook, il grande autore coreano che nel 2003 aveva stupito il mondo con l’indelebile Old Boy. Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove a detta di molti addetti ai lavori avrebbe meritato il Leone d’Oro, No Other Choice riporta l’autore coreano ai massimi livelli, con un pamphlet sul mondo del lavoro di oggi in Corea. Ma non è forse così in tutto il mondo? Quello che è sicuro che vedremo l’altro lato di un Paese che amiamo e che ci ha avvolto in Un inverno in Corea.
Se qualcuno dovesse regalarvi un’anguilla state attenti
“Sapete cosa mi sento? Adesso ho tutto”. Mai dire una cosa simile. Sono le parole che, durante un pranzo di famiglia in giardino, pronuncia You Man-su (Lee Byung Hun) abbracciando la sua famiglia perfetta, la moglie, i due figli e due golden retriever. Ha appena ricevuto una lettera di ringraziamento per i suoi 25 anni di onorato lavoro nella sua azienda, nel ramo della produzione di carta, e un’anguilla come regalo da gustare con la sua famiglia. Anche l’amore con la moglie Miri (Son Yejin) sembra andare alla grande. Eppure, solo qualche giorno dopo, scopre che l’anguilla era un messaggio di saluto. E che è stato licenziato dall’azienda. Mentre la famiglia comincia ad avere problemi economici e si trova a dover rinunciare a tante cose, tra cui gli amatissimi golden retriever e forse anche alla casa, You Man-su prova a cercare lavoro, ma tornare in pista non è facile. Il posto di lavoro dei suoi sogni ci sarebbe: è la Moon Paper, azienda della carta all’avanguardia. Per quel posto, però, ci sarà probabilmente una concorrenza spietata. E allora, i candidati chi possono essere? Come trovarli? E come eliminarli?
Tra Costa-Gavras e Brett Easton Ellis
Eliminare la concorrenza, in questo film, vuol dire eliminarla fisicamente. Siamo in un film coreano, d’altra parte, e bisogna aspettarsi di tutto, anche la morte. È un paradosso molto calzante, e una metafora fin troppo chiara di quel clima che è l’homo homini lupus che è il mondo del lavoro in ogni luogo del mondo. E immaginiamo cosa deve essere in Corea del Sud, dove la società è estremamente competitiva e dove ogni cosa, dall’istruzione allo show business al mondo del lavoro, tutto viene vissuto al massimo del ritmo e senza un attimo di respiro. La metafora non è nuova: No Other Choice è ispirato a un film dell’autore greco Costa-Gavras. Ma, in fondo, eliminava in suoi colleghi e concorrenti, i rampanti yuppie newyorchesi degli anni Ottanta, anche Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho di Bret Easton Ellis.
Un’irresistibile dark comedy che coglie nel segno
Tutto quello che accade in No Other Choice è tragico, doloroso, devastante. Eppure è raccontato in un modo irresistibile. Park Chan-wook mette in scena quella che in fondo è un’operetta morale con la forma di una dark comedy, una commedia nera con un tono tra il grottesco e il farsesco. Il divertimento nasce dal sentimento del contrario: You Man-su è ovviamente tutto tranne che un killer professionista. Non ne ha la freddezza, non ne ha la mano. E poi, di fronte alle vittime, che non riesce a guardare negli occhi, tende a provare empatia. Sì, perché quegli uomini sono proprio come lui: amano la carta e tutto quello che comporta, hanno appena perso il lavoro, qualcuno ha una moglie, qualcuno anche dei figli. E allora tutto diventa una commedia slapstick, in cui il nostro protagonista è un pesce fuor d’acqua, è come il Peter Sellers alias l’Ispettore Clouseau de La pantera rosa o di Hollywood Party. È imbranato, e impacciato, è sfortunato. E allora non resta che ridere, anche se sappiamo che stiamo assistendo a una disgrazia.
La commedia riesce a fare centro meglio del dramma
E la commedia è forse l’unico modo per esorcizzare questo mondo che non ci piace, per far arrivare il messaggio più chiaro e più forte al pubblico, un pubblico che ormai hai tirato dentro il gioco, che sta intrattenendo alla grande e che quindi non può più resisterti, non può chiudere gli occhi, non può lasciare la sala perché si sta divertendo. E, una volta che il pubblico è tuo, puoi lanciare dei messaggi che sono molto duri e importanti. Non è un caso che si è sempre parlato di “umana commedia” per raccontare la nostra vita. E che è da tempo immemore che l’uomo usa il teatro comico per mettere alla berlina i difetti della società. Il giullare, il fool o “matto shakespeariano” erano quelli che, facendo ridere, potevano dire tutta la verità. Anzi, erano gli unici che potevano dirla senza paura di essere puniti. Il Park Chan-wook di No Other Choice è proprio questo.
Il rovescio della medaglia
E così, ancora una volta, grazie a lui abbiamo visto il lato oscuro, il rovescio della medaglia della Corea del Sud, oggi nazione egemone a livello di produzione culturale, nelle serie, nel cinema e nella musica, e a livello tecnologico e automotive, con brand di livello mondiale che nascono a Seoul. Ma è anche una nazione dove tutto è portato all’eccesso. Anche in No Other Choice, come in molti altri film e serie, tutto è raccontato con quel senso di follia, di sacrificio estremo, di ineluttabilità, di isterismo che sembra esserci in ogni gesto di un coreano. Questo senso è figlio di una nazione che è da anni in un’eterna guerra con l’altra metà della propria casa, una guerra che è in tregua ma che ufficialmente non è mai finita. È una ferita profonda che taglia in due la Corea, e che crea, allo stesso tempo, una sorta di dolore collettivo e un stato perenne di paura. Non è un caso che il protagonista, in mezzo alle opere d’arte, i cimeli e i riconoscimenti (tra cui l’ambito premio del Pulp Men, per il miglior addetto alla produzione di carta…) ci sia anche una pistola del padre, di produzione nordcoreana, un residuato della guerra del Vietnam. Se i cimeli di guerra diventano opere da esporre in salotto, tutto torna. Non è un caso che il protagonista dice spesso, alla moglie e al figlio, “questa famiglie è in guerra”.
Un linguaggio nuovo
Park Chan-wook dirige tutto questo da grande regista che è, e che, da un film all’altro, non si è mai ripetuto. L’autore coreano sembra mettere in scena un linguaggio nuovo. È un Park Chan-wook – in apparenza, attenzione – più solare, più popolare, più semplice. Mette da parte i toni pittorici e oscuri del suo capolavoro Old Boy e le ombre di tanti altri film per girare un film che in superficie è luminoso, patinato, nitido, con tutto il veleno, l’amaro e la cattiveria che rimangono in profondità, nel cuore dell’opera. Con un montaggio che usa con eleganza la dissolvenza incrociata, aggiorna il suo discorso al mondo di oggi. Ai tempi di Old Boy non c’erano ancora gli smartphone e i social, e oggi sono parte integrante del racconto. A tratti, il regista coreano sembra anche ammiccare al linguaggio, più semplice e chiaro, delle serie tv che oggi vanno per la maggiore (il protagonista, Lee Byung Hun, è una delle star di Squid Game, ma attenzione a Son Yejin, la protagonista femminile, un personaggio intrigante e sfaccettato). Ma anche questo è un modo per arrivare a un pubblico più grande possibile. E poi lanciare il messaggio in modo ancora più forte.
di Maurizio Ermisino