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Addressable Media: l’altra faccia dell’audience buying

I media, volenti o nolenti, sono diventati digitali: non è solo un cambio di tecnologia, come quando si è passati dalla televisione in bianco e nero a quella a colori, è un cambio molto più radicale, che impatta sulle modalità di fruizione, su quelle di scelta, sul luogo e sullo stato in cui il media si osserva.

Un cambiamento che, a prescindere di quale tra i media interessati si stia parlando, ha un non secondario effetto sulle modalità di raccolta della pubblicità, per molti la principale fonte di finanziamento e, per i gratuiti, la sola fonte di sostentamento. Sono scomparsi, e non certo da oggi, gli appuntamenti imprescindibili, le trasmissioni che raccoglievano decine di milioni di spettatori, con le loro audience-monstre che garantivano coperture sufficienti per la gran parte delle marche.

Le emittenti televisive, e in misura minore quelle radiofoniche, si sono adattate al nuovo contesto, le concessionarie e i centri media hanno pazientemente costruito pianificazioni andando a centrare target sempre più sfuggenti, sommando frammenti di audience scelti sulla base dei tradizionali parametri socio-demo, contestualizzando i temi di interesse e declinandoli in trasmissioni ad hoc.

Ma il consumatore oggi è molto più che sfuggente: è mobile, è nomadico, ha una molteplicità di interessi ardui da ridurre a poche macro-categorie.
Mentre i media digitali hanno, da un lato, facilitato la scelta del tempo, del luogo e del device da utilizzare per vedere ciò da cui si è attratti in quel momento e, dall’altro, hanno rivoluzionato abitudini che sembravano destinate a durare per sempre, iniziando a sostituire il Prime Time con il My Time, per proseguire verso un personalizzazione sempre più spinta.

La risposta dell’advertising planning è stata altrettanto rivoluzionaria: abbandonare il contestual planning e adottare il programmatic planning. Non ancora per tutti gli inserzionisti e per tutti i brand, né tanto meno per tutti i media, ma il passaggio è avvenuto e non si torna indietro.
Il data-driven advertising è “the new black”: la promessa di consegnare una audience fatta da una quantità di individui segmentati sulla base dei loro interessi in un momento dato, acquistata in quell’istante mediante un’asta, è il mantra.

Ma in un nuovo mondo fatto di DSP, SSP, e DMP, dove anche la creatività sembra dover rispondere a criteri delineati dai dati, si è visto, dopo l’entusiasmo iniziale, che la situazione è più complessa di come apparisse a prima vista, che il lavoro creativo non può esser ridotto a una formula matematica, che la pubblicità non può semplicemente tendere verso un direct mailing 4.0. Mentre altri protagonisti, dai giganti Tech proprietari dei big data alla miriade di influencer, alle soluzioni di Artificial Intelligence, stanno occupando le loro posizioni nella filiera.
“Grande è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è favorevole”, diceva Mao Zedong ai suoi tempi. Che avesse ragione?