In tv scorrono le immagini dei Teletubbies, un vecchio programma per bambini. Alcuni ragazzini lo stanno guardando. Dovrebbe essere un programma rilassante, ma nei loro volti c’è terrore, perché stanno ascoltando i rumori che arrivano da fuori. Poco dopo il disastro arriva anche in casa loro: sono degli esseri umani furiosi e affamati, in preda a un’epidemia chiamata rabbia che li trasforma in degli zombie fuori controllo. È una scena carica di tensione e straniante, e dà subito l’idea di quello che è 28 anni dopo, il nuovo film horror di Danny Boyle, terzo atto della saga iniziata con 28 giorni dopo e proseguita con 28 settimane dopo, di cui Boyle era solo produttore esecutivo. A Roma per presentare il film, al cinema Barberini, il regista scozzese ci ha svelato che la sua nuova opera è la partenza di una nuova trilogia: il secondo film è stato già girato e il terzo è in attesa di finanziamento.
28 anni dopo il virus
La storia riprende 28 anni dopo lo scoppio dell’epidemia. Ci troviamo su un’isola al largo delle Highlands scozzesi, unita alla terraferma da una strada, una striscia di terra, che appare e scompare a seconda delle maree: ci sono solo 4 ore in un giorno in cui si può attraversare. È un luogo rimasto fuori dal tempo, isolato e chiuso in se stesso. “È una comunità che guarda al passato, è l’Inghilterra degli anni Cinquanta” spiega Danny Boyle. “Il riferimento è alla Brexit. I ruoli sono definiti, i maschi fanno i maschi, le femmine sono le femmine. Si insegna a fare la guerra, a cacciare. Il ragazzino protagonista invece sceglie di andare avanti”. Tutto comincia quando Spike (Alfie Williams), 12 anni, viene portato dal padre Jamie (Aaron Taylor Johnson) sulla terraferma per una sorta di rito di iniziazione, la sua prima caccia con arco e frecce, il suo primo faccia a faccia con gli infetti. Lui, però, vorrebbe andare sulla terraferma per curare la madre Isla (Jodie Comer), che è malata.
La storia di una famiglia
Così 28 giorni dopo si svolge in due atti (più un epilogo): prima un viaggio con il padre, poi quello con la madre, prima il maschile, con i suoi rituali di combattimento, poi il femminile, con la sensibilità e l’affetto. “Volevamo che il film attirasse i fan dell’horror, ma che parlasse di una famiglia” ci ha spiegato il regista. “Che cosa accade nelle famiglie, come si frantumano, come si riverberano i fatti esterni. E come un ragazzino, grazie all’amore della propria madre, trovi una sua strada”. Se da un lato il film è molto attuale per la metafora sulla Brexit, dall’altro lo è perché sembra anche un’immagine del mondo di oggi in cui i bambini che vivono in alcune zone pericolose sono costretti a crescere in fretta, troppo in fretta per la loro età. È anche a questo che si pensa per tutto il film.
Scrivere un film dopo la pandemia
28 anni dopo è un film che parla di un’epidemia. Il primo capitolo era del 2002. Questo, invece, è stato scritto dopo la pandemia, ed è inevitabile pensare a come questa si sia riflessa sul film. “La sequenza iniziale del film del 2002 mostra una Londra completamente deserta” riflette Boyle. “Con il Covid è diventata un’immagine comune a tante città. Tutto questo è andato ad alimentare il film. Ma lo ha alimentato anche il modo in cui ci siamo adattati alla pandemia. La reazione non poteva essere quella iniziale di paralisi: così la mossa successiva è stata correre qualche rischio, uscire”. Il continuo senso di paura, attesa, ansia, imminente pericolo caratterizza tutto il film.
Horror per esorcizzare i veri orrori del mondo
In una parola, è suspense. È normale, siamo in un film horror, un genere che sembra non tramontare mai e affascinare sempre di più, anche le donne – ci rivela il regista – che un tempo non amavano il genere. Perché l’horror conquista così tanto il pubblico? “È qualcosa che spinge ad andare al cinema: puoi esorcizzare le tue paure e il disgusto per tutti i veri orrori che ci sono nel mondo” spiega. “È un genere che puoi estendere, portare verso una direzione o un’altra”.
La rabbia è la nostra impostazione di default
Il virus che coglie l’umanità si chiama “rabbia”. E anche questo è molto attuale. “Quando abbiamo fatto il primo film pensavamo a quel tipo di rabbia che si scatena quando sei al volante” ragiona Boyle. “Ma oggi la rabbia è l’impostazione di default della nostra quotidianità: si va da zero e cento senza momenti intermedi. La colpa di tutto è la tecnologia, che ci ha dato individualmente tantissimo potere, strumenti che ci fanno sentire importantissimi. Ma ci rendiamo conto che non siamo la persona più importante o meno. Tanto andiamo tutti a finire nello stesso posto. È questo che volevamo dire”. E il film lo fa con un momento molto intenso, in cui il personaggio del dottor Kelson, interpretato da un Ralph Fiennes ispirato al Colonnello Kurtz di Apocalypse Now, ci fa un ‘memento mori’, ci ricorda che dobbiamo tutti morire. “A Londra, di fronte al Parlamento, davanti al St Thomas Hospital, c’è un muro che è un memoriale per le persone morte di Covid, un muro di un miglio e mezzo, grigio, ricoperto di bigliettini rosa. Ci ricorda che siamo tutti collegati, tutti connessi, tutti legati dallo stesso destino. Come fa il memoriale del dottor Kelson”.
La resistenza oggi? Mi fido della BBC
28 anni dopo mette in scena un’umanità superstite che prova a mettere in atto una resistenza. Ma chi è la resistenza nel mondo di oggi? “Credo che manchino i leader della resistenza, anche se parlo solo del mio Paese: mancano figure che siano fonte di ispirazione” riflette il regista di Trainspotting. “Si è pensato che la tecnologia potesse guidarci, ma la prospettiva mi sembra molto distante. L’AI offre opportunità di business, ma va contro la privacy e non ci dà informazioni affidabili. Mi fido della BBC” confessa Boyle. “Fornisce informazioni, ma non è di proprietà di nessuno: non di aziende, non della Famiglia Reale, è delle persone. Le immagini vengono controllate, messe al vaglio. È disprezzata da chi è a destra perché è troppo liberale. È il luogo migliore che può offrire la resistenza”.
Un film girato con droni e smartphone
Danny Boyle gira con il suo solito stile ‘punk’, monta a ritmo di rock e mescola immagini e linguaggi, dando un senso di movimento e diversi punti di vista. “Abbiamo usato varie tecnologie: macchine da presa leggere per non lasciare un’impronta pesante sull’ambiente, molti smartphone e molti droni, mandando in scena gli attori senza la troupe” commenta il regista. “Ogni telefono oggi riprende in 4K, cioè la qualità massima che possiamo vedere al cinema. Ed è come se sfidassi ogni volta la troupe: le troupe girano molti film uno dopo l’altro e tendono a lavorare sempre nella stessa maniera, per questo resistono al cambiamento. Li abbiamo destabilizzati. Quando giri vuoi delle crepe nella perfezione del girato. Nella scena in cui corre, abbiamo dato ad Aaron Taylor Johnson la camera da tenere in mano. Ne abbiamo potuto utilizzare solo alcune parti, ma le abbiamo tenute”.
di Maurizio Ermisino