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Professione regista. Air3 e i suoi registi italiani che vivono all’estero. Emanuele Cova da Londra: “Che il sistema Air3-Cpa-Adci segni la svolta. E voi creativi, perché non guardate le reel in modo anonimo? Italia ostaggio di clienti che senza cultura audiovisiva impongono. In Uk si dimostra che si può ‘vendere’ con originalità. Remunerazioni? La torta si ripartisce uguale, ma estero budget più alti e gare non da Far West”

Gli astronauti sostengono che la vista della terra dallo spazio influenzi in modo irreversibile l’amore che provano verso il nostro pianeta. Tu che lavori lontano dall’Italia, come la vedi da là, Major Tom?

Major Tom to Ground Control…La vedo come sempre bellissima, affascinante e interessante, ma anche tremendamente congestionata dalle solite dinamiche politiche lavorative, anche se con la nascita di Air3, sento una nuova ventata di freschezza nell’aria. Vivere a Londra mi regala sempre stimoli nuovi e la mia creatività viaggia veloce come un treno perché qui i ritmi sono concretamente più spediti. Ma l’Italia resta la mia terra, la mia radice, la mia famiglia. Spero vivamente che questa nuova ventata di freschezza, porti novità e concretezza nel mondo Adv Italiano e crei dei rapporti solidi tra l’Adci, la Cpa  e l’associazione Italiana registi, così da collaborare in armonia totale e creare insieme dei contenuti all’avanguardia e creativamente sublimi, che non hanno nulla da invidiare alle campagne internazionali che stravincono ai Festival. Perché a noi manca nulla, solo il gioco di squadra! Abbiamo dei direttori creativi bravissimi, dei produttori preparati e organizzati, e una serie di talenti locali che non aspettano altro che rimboccarsi le maniche per farsi il culo vero, anche a confronto con budget e creatività challenging, per remare tutti insieme nella stessa direzione. Troppo spesso tendiamo a cercare ciò che altrove perché influenzati dalle mode e dall’esterofilia, ma i talenti li possediamo già in casa, ed è giusto che si inizi a coltivare veramente un background artistico-culturale di vera comunicazione Made in Italy. Gli Anglosassoni lo fanno già da molto tempo. It is time Ground Control…Major Tom!”

All’estero ci sono molti ricercatori e pochi registi, italiani: secondo te è una questione di talento, di formazione, di considerazione, o che altro?

“Penso che sia una questione di preconcetti radicati nei direttori creativi Internazionali, maturati nel corso degli anni, che hanno alimentato il cliché del regista Italiano chiassoso e fanfarone, ideale come gusto per lo storytelling del mondo fashion o il food (importanti nella cultura Italiana), ma senza un vero e proprio background audiovisivo storico culturale di sostanza nel mondo dell’adv, che lo potesse realmente prendere in considerazione per firmare campagne importanti (escluse le eccezioni), con un linguaggio tecnico all’avanguardia ed esteticamente evoluto. A volte penso che i creativi dovrebbero guardare le reel in modo anonimo, cosi da non essere influenzati dal nome che ha firmato il film, ma di concentrarsi piuttosto sulla sensibilità e il gusto della messa in scena che le immagini trasmettono e scegliere così il profilo ideale per la campagna che si ha in mente di produrre. Anche se ripeto e ritengo che la musica stia cambiando. Vedo parecchi colleghi italiani che girano molti film all’estero, spessissimo più che in Italia (paradosso) perché ormai hanno una reel affermata sui mercati internazionali, mentre quello Italiano, possiede generi e un’audience diversa, perciò sono spesso scartati o non presi in considerazione seriamente.  Molti registi italiani vivono all’estero e lavorano con l’Italia, come il sottoscritto. Il mondo ormai è globale perciò vale tutto.  Avevo 19 anni quando mi sono trasferito a Londra per studiare all’università London College of Communication, perciò si può affermare che la mia regia e il mio storytelling si siano formati lì. Ma nonostante il mio background anglosassone, porto un cognome italiano di cui vado fiero, perciò il direttore creativo inglese (nazional-popolare) mi guarderà sempre dall’alto al basso, privilegiando un mio collega inglese che magari ha conseguito il mio medesimo percorso, mentre il creativo italiano (esterofilo) mi scarterà facilmente a priori, perché il mio collega inglese possiede un cognome straniero e di conseguenza la sua reel produrrà un certo tipo di fascino e attrazione che il mio nome non è in grado di generare perché italiano. Senza contare che il mio collega inglese si confronta e misura in un mercato che osa molto in termini di creatività e comunicazione, perciò la sue reel sarà sempre più efficace e vincente. L’Italia purtroppo è ancora ostaggio dei clienti che nonostante pecchino di cultura audiovisiva (fanno un altro mestiere), vogliono determinare qualsiasi scelta artistica di messa in scena di un contenuto, senza affidarsi ad un certo punto all’agenzia che li rappresenta e soprattutto che hanno scelto inizialmente. Da noi l’imperativo è vendere, ma l’Inghilterra e i paesi nordici, ci dimostrano ogni giorno, che si può anche vendere con eleganza e originalità”.

E’ cambiata la percezione che il mercato italiano ha di te da quando sei all’estero?

“Quando ho iniziato questo mestiere nel 2008 un po’ mi ha aiutato. Il fatto che vivessi a Londra e mi fossi formato lì riusciva a convincere lo scetticismo iniziale del direttore creativo a darmi fiducia. Con il passare del tempo, vivere all’estero è diventata una cosa usuale e all’ordine del giorno, perciò direi che forse l’unico vantaggio di vivere all’estero si sia ridotto al fatto di possedere una mia casa di produzione inglese in grado di essere allettante in termini di tasse e fatturazione per consulenze a società Italiane”.

Cosa significa essere un regista straniero, ovvero registi italiani in un mercato internazionale?

“Come dicevo prima, ormai anche il mondo dell’adv è globale a tutti gli effetti, perciò in teoria non ci sono più i registi italiani ‘stranieri’ che vivono all’estero. Ci sono solo quelli cool e meno cool, quelli paraculati e quelli poco propensi alle pr e all’autopromozione, i nerd, gli hypster, gli esteti, gli egomaniaci, i poliedrici, i volponi, gli insicuri e quelli bravi. Ma soprattutto i registi fortunati che capitano sulla schermo/scrivania giusta al momento giusto con il brief perfetto: loro sono quelli che svoltano veramente”.

Dal punto di vista economico ci sono differenze rilevanti tra il nostro mercato e quelli in cui operi tu, soprattutto riguardo le remunerazioni e la divisione del budget di produzione tra la diverse voci-competenze che lo compongono? Insomma, a occhio e croce, la torta come si ripartisce tra agenzia di pubblicità, media, casa di produzione e regia?

“Sicuramente ci sono delle differenze sostanziali in termini di fee e budget. I registi all’estero sono senz’altro pagati di più, ma dipende sempre da caso a caso, dal budget del film e penso dal tipo di creatività sottoposta. All’estero si è sicuramente pagati meglio, ma questo dipende solo dal fatto che i budget internazionali sono certamente più cospicui rispetto a quelli Italiani. Sotto quest’aspetto l’Italia è senz’altro più povera in termini di budget per produzione video tv o web. Non è una questione che dipende totalmente da noi e penso che la torta sia divisa in modo abbastanza simile. Il vero problema del nostro mercato è che purtroppo è ancora dominato da troppe dinamiche, secondo me ormai sorpassate, che rallentano notevolmente il work flow delle produzioni perché in Italia vale tutto, non ci sono molte regole e quindi la gestione delle gare diventa una sorta di Far West dove vale tutto e si perde un sacco di tempo dietro a molto fumo e poco arrosto. Perché con la crisi che c’è stata, le case di produzione italiane sono diventate delle vere e proprie ‘banche/service’ che anticipano un budget che vedranno a 90 giorni, con un mark up diverso da quello passato e pur di muovere l’economia (giustamente) dei propri fatturati, sono disposte a tutto pur di vincere. E il regista per loro non è altro che un comandante che deve portare in porto una nave, con pochi mezzi, generando il miglior prodotto possibile a un costo relativamente basso (nozze con i fichi secchi). In questo senso spero che capiscano che il regista è un loro alleato, un problem solver, piuttosto che una figura interessata solo ed esclusivamente al proprio guadagno o alla propria reel. Con le tecnologie moderne, si possono benissimo produrre contenuti all’avanguardia ad un costo non eccessivamente alto. Penso che la cosa che stia più a cuore a un regista sia esclusivamente una: il film.

In Inghilterra il work flow e le dinamiche delle case di produzione sono totalmente diverse. Sono anche esse delle ‘banche’, avvantaggiate da budget più importanti e perciò possono permettersi di avere anche la pazienza di costruire un roaster di registi affidabili e coltivati nel corso degli anni, ai quali le agenzie si rivolgono direttamente per un genere specifico: comedy, car, kids, sport. E’ molto difficile entrare a far parte di un roaster di una casa di produzione Inglese, ma se hai la fortuna di riuscirci, sarai sempre contattato se servi veramente al tipo di progetto proposto e al massimo competerai con la shortlist di due o tre registi che presenteranno come te un trattamento. Penso che l’esempio più tangibile per spiegare la differenza tra noi e loro, sia che gli italiani chiamano spesso un regista straniero, che non parla la nostra lingua a dirigere performance e dialoghi (i nostri script ne hanno molti di più) comedy Italiani (paradosso), mentre gli inglesi non si sognerebbero mai di chiamare anche il nostro miglior regista di comedy a dirigere un loro script. Perché il loro humour è totalmente diverso dal nostro e poi perché giustamente chiamare uno straniero che magari parla bene l’inglese ma non appartiene culturalmente allo stile anglosassone? Da noi è esattamente il contrario e la beffa risiede nel fatto che spesso lo straniero        viene in Italia per dirigere la marchetta che lo fa guadagnare, mentre il talento italiano ha molto più fame e perciò metterebbe tutto se stesso per la buona riuscita del progetto, che si tratti della campagna mondiale di Nike o di un prodotto meno inflazionato”.

Quali sono le differenze sostanziali che riscontri all’estero e quali quelle che vorresti importare nel tuo paese di origine per lavorare tutti meglio?

“Più regole che tutelino le agenzie nei confronti dei clienti, altrettante che tutelino le case di produzione dalle agenzie ed infine quelle che salvaguardino la figura del regista Italiano. Più chiarezza nelle gare: perché chiamare 10 case di produzione ed un pool infinito di registi, quando un creativo sa già che tipo di storyteller gli serve e magari può impiegare il suo tempo a scoprirne di nuovi che ancora ignorava e che hanno tutti i requisiti per fare un ottimo lavoro. Un po’ come nel calcio, per scoprire i talenti di domani bisogna studiare, osservare un sacco di materiale con la mente concentrata sullo schermo, senza un account che ti interrompe ogni 30 secondi o una email di un cliente con l’ennesima richiesta.

E infine più rispetto e considerazione per i talenti che già possediamo in casa. Se fossi un direttore creativo Italiano importante è logico che aspirerei a girare la mia campagna con Alejandro Inarritu o Nicolas Winding Refn. Ma penso che sia altrettanto stimolante e onorevole sostenere i registi Italiani (siamo più di 100, qualcosa sapremo fare, no?) per una questione nazional-culturale, o avere l’opportunità di scovare e lanciare il Paolo Sorrentino di domani”.

Da Londra, Emanuele Cova, regista associato Air3.